DIALOGO CON      DICONO DI LUI       ATTIVITA DIDATTICA                  



MARIE-ANGE BRAYER
MARIE-ANGE BRAYER

MARIE-ANGE BRAYER

 

 

Le esperienze più radicali di Gianni Pettena avranno luogo, all’inizio degli anni ’70, tra Minneapolis e Salt Lake City. Quando arriva negli Stati Uniti ha già realizzato, tra le opere importanti, delle performances urbane come la trilogia Carabinieri, Milite Ignoto e Grazia e Giustizia nel 1968. Questi interventi prendevano spunto dalle parole, come nel caso di “Grazia & Giustizia”, le cui lettere di cartone furono portate in giro per la città, ma era innanzitutto la scala antropomorfica a rendere ambiguo lo status di queste lettere, e poiché erano votate alla distruzione, esse si presentavano allo stesso tempo come una concretizzazione del linguaggio e come dei “monumenti” effimeri, ipertrofici se riferiti alla loro origine semantica e miniaturizzati se riferiti alla loro destinazione urbana. Troppo grandi o troppo piccole che fossero, ponevano sicuramente il problema della scala, quello dell’oggetto e quello del suo contesto. In questi interventi si affermavano dunque già due aspetti fondamentali del lavoro di Pettena: l’importanza della scala e del linguaggio, entrambi presenti in una interpretazione nuova del concetto di “paesaggio” poiché infatti, facendo muovere le lettere per la città, si costruiva un altro paesaggio, frammentario e mobile. Per Pettena il paesaggio dipende innanzi tutto da coordinate linguistiche, e rimane sulla linea di demarcazione tra la fisicità irriducibile della materia e l’azione intesa come costruzione dello spazio. Nelle sue fotografie del deserto americano egli presenterà il paesaggio come “costruzione” della natura, come “architettura inconscia”, endogena alla materia. La scala del paesaggio non sarà mai oggettivabile in quanto tale, perché sempre carica di riferimenti che rinviano a altri luoghi e altri tempi.

 

Lo spostamento e l’intervento sullo spazio intesi come atti costitutivi del “paesaggio” caratterizzano le due performances che Gianni Pettena realizza a Minneapolis, nel Minnesota, nel 1971. In ambedue le opere, Paper e Wearable Chairs, è evidente il carattere ‘performativo’ che egli attribuisce al linguaggio nella costruzione dello spazio. In Paper/Midwestern Ocean, realizzata al College of Art and Design dove allora insegnava, lo spazio della sala dove Pettena doveva tenere una conferenza viene completamente invaso da strisce di carta. Appese al soffitto, queste strisce, come liane nella foresta vergine, ostacolavano la vista e la circolazione nello spazio, presentandosi come una specie di architettura “molle”, ripetitiva, filamentosa. Le strisce producevano “disturbo”, pur senza pervenire al livello del linguaggio. Gli studenti, con l’aiuto di un paio di forbici, dovettero aprirsi la strada in questa fitta giungla di carta, che poi formò il “mobilio” perché, in mancanza di sedie, vi si sedettero sopra per ascoltare la conferenza di Pettena sulla “costruzione“ dello spazio. Ancora una volta Pettena giocava allo stesso tempo con la materia come architettura e con il linguaggio come materia, dicendoci: ecco come si può costruire lo spazio, fare architettura inscrivendola in una dimensione temporale che è tipica delle regole dell’azione. Le strisce di carta ricreavano un paesaggio, sia fisico che mentale, che aveva la particolarità di poter essere modificato da chi lo abitava, di essere costruito sulla scala del corpo.

 

Ancora a Minneapolis, alcuni studenti di Pettena indossarono per un giorno, in città, le Wearable Chairs, sedie che essi portavano come un capo di vestiario in più, ma da utilizzare, pezzo di mobilio transfuga che, ancora una volta ci riportava a una nostra costruzione dello spazio. “Si trattava di creare architettura utilizzando metodi intuitivi….non c’è più bisogno di parlare di sedia o di casa per descrivere quello che facciamo; saremo in grado di parlare di sedia o di casa per descrivere quello che facciamo solo se avremo voglia di parlare di queste cose, e non d’altro…” (1)

Gianni Pettena proponeva il concetto che l’importante, nella nostra relazione con gli oggetti, non è tanto l’azione ‘nominativa’ quanto quella ‘performativa’. How to do Things with Words scriveva John Austin all’inizio degli anni ’60: “quando dire è fare”. La sedia è, per Pettena, un enunciato performativo potenziale, da riattivare.

In Wearable Chairs la sedia è diventata “anello di congiunzione” all’interno di una sintassi, è implicata in una concatenazione semantica, tra il corpo e il suo contesto, e crea allo stesso tempo il linguaggio e il paesaggio. Pettena qui ha ribaltato il rapporto uomo-sedia: non è più la sedia che sorregge l’uomo, ma l’uomo che porta la sedia. La sedia portatile gli permette di riposarsi quando ne ha voglia e scompare nella sua assoluta aderenza al corpo: essa aderirà nel momento in cui ci si vorrà sedere. Diminutivo della casa, la “sedia portatile” ricostruisce un modo di abitare mobile, senza architettura.

 

Entrambe queste performances ci rimandano allo stesso gioco: lo spostamento di un corpo erratico nello spazio, che “costruisce” l’architettura sul momento. Un’architettura decisamente nomade, senza alcun ancoraggio. La comprensione di queste opere è determinante, da un lato per l’analisi di quelle che costituiranno la trilogia di Salt Lake City, interventi in presa diretta con i fenomeni della natura e, dall’altro, per comprendere le “architetture inconscie”, lettura fisica del paesaggio attraverso la fotografia.

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In Pettena non è il territorio che si codifica nella carta geografica, ma la carta geografica che si materializza nel territorio. L’architettura deve riguadagnare in fisicità, è un misto di territorio e di paesaggio, di costruzione-materia e di carta geografica-natura. La scala degli interventi di Gianni Pettena è anche di tipo narrativo; essa tesse dei legami tra il campo del reale e quello dell’immaginario. Infatti che cosa sono le Ice House, l’una avvolta in un velo di ghiaccio che rende brumosa ogni realtà al suo esterno, l’altra che nasconde completamente la costruzione preesistente, se non degli oggetti visuali che rendono incerta la linea di confine tra il reale e l’immaginario? (Si vedrà in seguito come, molto più tardi, negli anni ’80, Gianni Pettena continuerà in campo pittorico questa indagine sulla rappresentazione, con dei “quadri viventi”) Quello che importa qui è la modalità della trasposizione, dall’architettura verso l’immagine, in cui essa sembra sbarazzarsi, usando il vettore della natura, della sua fenomenicità. L’aggiunta di materia perviene paradossalmente a rendere assente l’oggetto architettura. Altrettanto paradossalmente, ciò che è più temporale appare come più eterno. L’architettura, articolazione tra il tutto e le parti, è diventata una specie di “gestalt”, di forma globale, che oscilla tra percezione cognitiva e immaginaria, dimensione visuale e aptica. L’esplorazione di questa fenonenicità sarà ancor più radicalizzata nella Salt Lake Trilogy. Proprio come Il poeta William Carlos Williams, il cui Paterson e il suo flusso incoercibile di parole aveva colpito Robert Smithson, Gianni Pettena potrebbe evocare la frase di Williams “no ideas but in things”, rinviando sempre le idee alla loro concretezza, le cose alla loro materialità fisica, e tuffandoci nel cuore di questa materia-paesaggio.

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“Poiché i veri ricordi non devono tanto rendere conto del passato quanto descrivere precisamente il luogo dove il cercatore se ne è impossessato” : il ricordo, dotato di una capacità di “descrizione” fisica del luogo, sotto forma di un atto di appropriazione, condurrà Pettena verso la ricerca mineralizzata della sua genealogia, attraverso un pellegrinaggio geografico. Pettena. si trasformerà in nomade, dirigendo i suoi passi verso la Monument Valley, le montagne rocciose, la regione del Grande Lago salato dell’Utah, le miniere di rame a cielo aperto, le dighe costruite per ottenere il sale. Lì fotografò le strade che si aprivano un percorso attraverso le zone desertiche e ciò che egli chiamò “le architetture del vento”; fotografò il deserto e le sue concrezioni rocciose; le cave e gli “smelters” di trasformazione del minerale, facendo affiorare delle “architetture in-conscie” dai meandri di questa materia arida. Queste foto erano debitrici nei confronti dello “sperimentalismo esistenziale” dell’ architettura funk, ma anche certamente del Manifesto dell’architettura Assoluta redatto da Hans Hollein e Walter Pichler nel 1963, che rivendicava “l’esplorazione dei valori simbolici, arcaici dell’architettura, dei valori emozionali e dei significati irrazionali”, e guardava al “passato mitico delle origini dell’architettura”. Pettena,da allora in poi, di quelle esperienze avrebbe condiviso la portata concettuale dell’architettura come ricerca congiunta sul linguaggio e sullo spazio fisico, ricerca che inizierà parodiando lo spirito classificatorio di un viaggiatore del XVIII° sec., al modo di un Alexander von Humbolt, cioè considerando l’avventura fisica dell’architettura come una cosmogonia.

 

Ecco dunque le serie di fotografie About Non-Conscious Architecture, che comprendono le vedute frontali delle pareti rocciose della Monument Valley, con il loro simbolismo ieratico; le riprese dall’aereo, di carattere cartografico; le dighe delle saline; le strade che sembrano venire dal nulla e andare in nessun luogo, incrociando la linea dell’orizzonte. O, ancora, dettagli ipertrofici di materia minerale in cui il riferimento implode. Come testimonia la serie degli Hogans and Dwellings, natura e architettura vi appaiono indissociabili. Con tutto questo, Pettena intendeva dimostrare che ciò che chiamiamo “natura” non è che una costruzione. Nelle sue fotografie ha voluto cogliere le tracce del passaggio dell’uomo, i segni che ha lasciato sulla natura, che a poco a poco hanno costituito un giacimento di “ricordi” del luogo. [...]  

Le “architetture in-conscie” possono solo essere “visualizzate”. Gianni Pettena presenta questo lavoro fotografico come una “esperienza di lettura critica e di documentazione dell’architettura”, dato che i documenti catalogati devono essere verificati dalla lettura. Alla maniera dei cosmografi del XVI° sec., come Gemma Frisius o Abram Ortelius, affascinati dalla possibilità di una visione enciclopedica del mondo attraverso le carte geografiche che riunivano in un atlante, Pettena accosta e somma le sue fotografie in una decisa volontà di catalogazione, nella quale sembra volersi dedicare a una specie di descriptio, dove il paesaggio “è compreso come spazio oggettivo di esistenza, più che come veduta abbracciata dallo sguardo di un soggetto”(19). Cerca di fare, di questa collezione di paesaggi, un’esperienza sia visiva che cognitiva. Per fare questo, egli mima la condizione di un naturalista della fine del XVIII° secolo, contemporaneamente viaggiatore, geografo e geologo, come fu Alexander von Humboldt, servendosi di una metodologia di lettura fisica del territorio. Lo fa ironicamente nei panni di un “architetto naturalista”, di un Geoffroy de Saint-Hilaire dell’architettura, sostenendo una “teoria dei simili”. Le vedute, simili a delle concrezioni architettoniche naturali, si presentano all’interno di un procedimento tassonomico il cui principio poetico sarebbe assimilabile a quello dei tropi in cui il senso continua a derivare per omologia.. Nello stesso tempo, Pettena sottolinea, in queste foto, l’inerzia di ogni processo classificatorio, l’impossibile globalizzazione e catalogazione del sapere. La lettura fisica della natura non porta ad alcuna conoscenza positivista. Tuttavia, se tutte queste fotografie sembrano, a prima vista, mostrare la natura come “un grande sedimento inerte e immobile”(20), questi “documenti”, che presumono di oggettivare la sua fenomenicità, ci rinviano infallibilmente a noi stessi, alla nostra “elaborazione “ dello spazio naturale.

Le fotografie delle “architetture in-conscie” si presentano come una “epistemologia dei saperi visivi”(21); esse ci interrogano sulla ‘natura’ del luogo, confondendo le frontiere categoriali fra le nozioni di paesaggio e di geografia. Pettena fa qui “un’elaborazione” geografica del paesaggio, insieme veduta e territorio, “substratum” segnato da impronte e tracce, sia fisiche che mnemoniche: torna alla dimensione arcaica del paesaggio che aveva, nel XVI° sec., un significato sia territoriale che geografico (Landschaft, paese) (22) La maggior parte delle fotografie si possono riallacciare alla tradizione delle vedute corografiche, che sottolineano la “phusis”, la natura fisica dei luoghi, la prossimità degli elementi. Anche se gioca con lo spirito di classificazione di uno scienziato illuminato del XIX° sec., Gianni Pettena sarebbe da avvicinare piuttosto a un umanista del Rinascimento che scopre, incantato, un paesaggio sempre “lavorato” dall’uomo, che sta fra natura e territorio. Mentre il paesaggio diventa autonomo nel XVI°sec. e perviene allo status di “rappresentazione”, Pettena “legge” anche il paesaggio più spopolato - il deserto - come una geografia umana che ha risorse antropologiche. “Il visibile racconta qualcosa, una storia; è la manifestazione di una realtà di cui è, per così dire, la superficie. Il paesaggio è un segno, un insieme di segni che dobbiamo imparare a decifrare, a decriptare, in uno sforzo d’interpretazione che è uno sforzo di conoscenza…. L’idea è dunque che dovremmo leggere il paesaggio”. (23) Però Gianni Pettena non si accontenta di leggere un oggetto: il paesaggio è appreso nella sua fenomenicità, ha anche una fisionomia che può essere apparentata a quella del nostro “corpo”, che veicola cioè una propria memoria. Se, per Erwin Straus, “ il paesaggio è invisibile perché più lo conquistiamo più ci perdiamo in esso” (24), Pettena conferisce al paesaggio la capacità di resistere all’urto dei ricordi, trasformandolo in un “corpus” di proiezioni individuali e di materie. Il permanere del ricordo informerà di sé le pieghe del paesaggio. Il ricordo avrà un valore euristico perché sarà lo strumento stesso dell’archeologia visiva del paesaggio. Questi ricordi sono un po’ come gli abschattungen, quelle immagine date dell’intuizione fenomenologica che devono essere collegate tra loro per giungere a una descrizione sintetica dell’oggetto. Al contrario delle posizioni moderniste che scorgono soltanto l’epifania del “bello”, Pettena rivendica un approccio “fisicalista” del paesaggio, pur mostrandosi nelle vesti di un archeologo che fa risalire in superficie strati di memoria. La lettura del paesaggio non potrà che essere un esercizio che si muove tra la sua “conoscenza”, percettiva, cognitiva e la sua “rimembranza”, emozionale, individuale, in cui si proietta la nostra lettura fisica, evolutiva quanto le lente strutturazioni formali del paesaggio.

 

L’esperienza topomorfica del paesaggio a cui Pettena si abbandona, ci rimanda a delle percezioni sempre frammentarie, incapaci di ricostituire un senso unitario. Il paesaggio si presenta come flusso, fluttuazione, cambiamento. E’ decisamente una “non-ontologia” che ci apre allo spostamento, al nomadismo. Questo paesaggio, nella sua non permanenza, è inabitabile. Accoglie solo i nomadi che sono di passaggio. Le “architetture in-conscie” sono dunque dei paesaggi inabitabili, delle architetture solo da percorrere, senza mai fermarvisi. E’ per questo che non si può coglierle se non con una fotografia, in cui ogni istante scaccia l’altro: non sarà mai possibile stabilirvisi o riposarci. Questa concezione spinoziana della natura in Pettena, in cui confluiscono pensiero e materia, può evocare il dispiegarsi cinestesico di un testo letterario, altro tentativo parodistico di enciclopedizzazione del mondo, luogo di eterotopia nell’analisi di Michel Foucault: La Tentazione di Sant’Antonio di Flaubert, in cui l’immaginario delirante si ammanta nell’accettazione panteista del luogo, che si conclude con l’esclamazione del santo: ”essere la materia!”. Antonio “cammina nel recinto delle rocce, lentamente” (25), comprende che il mondo è percorso solo da flussi e che è difficile riconoscervi l’impronta delle cose, delle cose in sè.(26). Analogamente, per Pettena, il paesaggio è reversibile: luogo d’impronte e impronta ultima esso stesso. Il paesaggio non si “visualizza” che nell’esercizio dello spostarsi: spostamento fisico nello spazio-tempo o spostamento metonimico, con un significato che è sempre diverso. Le “architetture in-conscie” sono avvolte in un tempo senza inizio né fine. La lettura del paesaggio, in Pettena, “è il mondo che apre le sue strade, che diventa strada, in cui qualcuno già cammina o camminerà” (27).

 

[1] Gianni Pettena, Radicals. Architettura e design 1960/75, La Biennale di Venezia, Venice 1996.

[1]9 Jean-Marc Besse, Voir la terre. Six essais sur le paysage et la géographie, Actes Sud, ENSP/Centre du paysage, Arles 2000, p. 4.

20 Mlle de l’Espinasse in Denis Diderot, Le rêve de d’Alembert, Gallimard, Paris 1972, p. 188.

21Jean-Marc Besse, op. cit., p. 114.

22 Ibid., p. 39.

23 Ibid., p. 98.

24 Erwin Straus, Du Sens des sens, Jérôme Million, Grenoble 1989, p. 519.

25  Gustave Flaubert, La tentation de Saint-Antoine, Garnier-Flammarion, Paris 1967, p. 32.

26  Ibid., p. 151.

27 Julien Gracq, En lisant, en écrivant, José Corti, Paris 1980, pp. 87-8. Quoted in Philippe Hamon, La Description littéraire.  Anthologie de textes théoriques et critiques, Macula, Paris 1991.

 

 

Lettura del paesaggio nell’opera di Gianni Pettena,

2002, AAVV, Gianni Pettena. Le métier de l’architecte, Editions HYX, Orléans