MARCO SCOTINI

 

 

 

 

[...]  In Gianni Pettena l’abbandono della sfera istituzionale dell’architettura non corrisponde ad una immersione nel sociale e ad una trasformazione del proprio ruolo in quello di attivista o di ‘operatore culturale’, secondo l’etichetta in voga a quel tempo. Al troppo pieno della sfera pubblica Pettena preferisce l’immagine archetipica (e più spopolata) del deserto, non tanto come luogo dell’esodo o della fuga quanto come simbolico grado zero dell’artificio, come spazio dell’assenza di tracce persistenti. Come terreno, dunque, non colonizzato, non pianificato, non lavorato “se non dal sole, dalla pioggia, dal vento” (4). Proprio il deserto (o la memoria geologica che esso incorpora) diventa l’oggetto di una profonda riflessione sul tempo, là dove questo è sottratto all’azione finalizzata, alla banalità e serialità della produzione. Abitare il tempo (senza esserne alienati) è un po’ come abitare il vuoto del deserto, “senza dover subito pensare un uso, immediato o futuro, utile al meccanismo e alla integrazione in esso” (5). In questo senso si può vivere tanto l’ozio quanto il deserto, ma al costo di una sospensione delle norme e delle abitudini, lasciando piuttosto che siano le cose ad accadere, le possibilità ad aprirsi, a farsi evento. Ma tutto ciò non è da confondere con l’inerzia o l’immobilità forzata. L’ozio può nascere, al contrario, solo a partire da un profondo lavoro su di sé, da un cambiamento radicale di prospettiva sul mondo, da una lotta sul tempo: contro il tempo omogeneo e ‘regolato’ della produzione e a sostegno di un tempo qualitativo, improduttivo, potenziale.  A quale tempo, Pettena, fa riferimento? E qual’è il modo attraverso cui cerca di accedere ad una temporalità non-controllota, imprevedibile e plurale? Di conseguenza, all’interno di tale concezione, quali potranno essere i modi di praticare lo spazio, di farne esperienza? Rivelare le pratiche spaziali che sono già in atto, per Pettena diventa l’assunto di partenza per ogni possibile intervento sulla realtà, in modo tale da contravvenire alle forme stesse del progetto. Se è vero che la fase progettuale precede sempre la realizzazione tecnica e che l’architettura non trova altra strategia d’attuazione che questa, altrettanto vero è che Pettena ne rovescia il paradigma. Nel suo lavoro nessuna conclusione è già anticipata in un disegno e in attesa di essere perseguita o tradotta nello spazio. C’è piuttosto una sorta di azione diretta, un intervento “a valle” sul costruito, sul contesto urbano storicizzato, attraverso cui l’artista non intende allontanarsi dai tempi veri del territorio e dei suoi abitanti. Interviene a scala 1:1, direttamente “nella realtà e non sulla carta aiutato da un aerografo” (6). Non sullo spazio astratto e inqualificato ma in quello fisico e concreto del paesaggio (non importa se costruito o naturale). In questo senso Pettena sostituisce al protocollo inerte del progetto l’apertura dinamica dell’evento. Tutte le sue azioni performative della fine degli anni ’60 e dell’inizio dei ‘70 sono rivolte ad una focalizzazione dell’attenzione, ad una integrazione della propria azione nel flusso esistenziale delle cose. Esse mirano soprattutto ad una calcolata astensione dal lasciare quei segni indelebili che implica ogni ricorso all’architettura come tale. Pettena arretra dal gesto forte e definitivo quale marchio di una supremazia dell’esercizio professionale dell’architetto sul mondo. Opera, al contrario, dentro frammenti temporali immanenti, in cui ogni sua resa fisica dello spazio si manifesta in un momento determinato (finito e presente), per poi dissolversi e ritornare ad uno stato di pura potenza. L’evento immanente si attualizza in uno stato di cose che lo fanno accadere. Lo spazio suonato del Progetto di Architettura N. 5 (1973), dove i limiti della scatola muraria sono percossi con dei martelletti da vibrafono, risulta esemplare in questo senso. È come se si trattasse, ogni volta, dell’attualizzazione di qualcosa che preesiste (e si conserva sempre) allo stato virtuale. Ebbene non è in gioco qui il rapporto anteriorità/posteriorità - che è proprio del tempo lineare - ma la relazione attuale/virtuale che implica piuttosto lo stato di coesistenza tipico della memoria. Se potenziale è ciò che non è ancora in atto (ma può diventarlo), attuale è - al contrario -ciò che non è più in potenza (ma lo è stato). Per rendere presente questa implicita condizione di latenza, Pettena impiega varie strategie. Una è quella che fa ricorso al processo di ‘estraniazione’ di matrice surrealista e che pone a confronto la produzione semiotica del progetto (e, cioè, le forme della rappresentazione) con la vitalità insopprimibile del luogo e del momento, qui e ora. Nell’opera in situ a San Giovanni Valdarno, Dialogo Pettena-Arnolfo (1968) l’artista introduce nei volumi aperti della facciata dell’edificio medievale una retinatura astratta, a strisce, in scala reale che contrasta e pone in rilievo la sequenza dell’originario doppio porticato, trasformando l’assenza dei vuoti in presenza materiale, il negativo in positivo. Così come in Red Line (1972) traccia sul suolo di Salt Lake City una linea rossa di circa quaranta chilometri che riproduce il confine amministrativo della città, rivelando lo scarto tra rappresentazione cartografica e spazio reale (con i suoi accidenti, l’eterogeneità, i vuoti e i pieni urbani). Nei tre interventi semiotici a scala urbana del 1968, Carabinieri, Milite ignoto, Grazia & Giustizia, Pettena dissocia le lettere dal campo di astrazione originario per reimmetterle nell’ambiente fisico delle piazze, dei cortili e delle strade, dove appaiono come monumenti temporanei e slogan politici allo stesso tempo. Attraverso la materialità dimensionale dei segni grafici, così come attraverso il gioco performativo e situazionale della loro mobilità e deperibiltà, Pettena rende visibile e tangibile quel sotto-testo prescrittivo che di solito scompare dietro il vissuto. Denuncia così la natura presidiata e controllata dello spazio pubblico dove la fruizione civica e i modi di vita si mostrano per quello che sono: un’attività tollerata, regolata e assoggettata. Se in questi esempi gli interventi di Pettena operano principalmente come indicatori visivi, ci sono altre due strategie, maturate nel suo soggiorno americano, che invece di mostrare i limiti dell’architettura o del piano, offrono nuove modalità di pensare gli insediamenti abitativi, aprendo al campo dei possibili. Da un lato c’è l’assimilazione dell’oggetto architettonico alle condizioni organiche del paesaggio naturale, dall’altro il riconoscimento definitivo che la nostra fisicità non sia altro che la prima architettura. Entrambi le strategie muovono in quella direzione di ‘rinaturalizzazione spontanea’ dell’architettura che viene perseguita, negli stessi anni, da Robert Smithson e Gordon Matta-Clark. Di fatto Hice House II, Clay House e Tumbleweeds Catcher, tutte e tre del 1972, appaiono piuttosto come gli effetti di escursioni termiche cha vanno dal gelo all’essiccazione, fino al movimento del vento. Inglobare una casetta middle-class americana (anonima e seriale) all’interno di un cubo di ghiaccio, oppure ricoprirne interamente un’altra con della creta spalmata a mano, così come lasciare che sia il vento a rivestire con i cespugli del deserto una struttura di legno in forma di torre, significa prendere le distanze da un’architettura che si fissa definitivamente in un oggetto per trasformarla in un processo evolutivo, aperto al caso e all’ignoto. Il carattere evenemenziale di questa proposta radicale scardina l’idea dello spazio come rappresentazione ed estrema formalizzazione (la griglia geometrica isotropa e astratta) per opporgli una gestione della realtà fisica che, di volta in volta, asseconda e non ostacola il movimento o le energie in campo. È qui che il progetto (o il suo paradigma) viene capovolto nel suo opposto: si parte da qualcosa di fisico per generare idee e non, viceversa, da un intenzione che va poi fisicizzata - per riprendere le parole di Smithson nella conversazione con Pettena. Come il Palazzo di Arnolfo ci riporta ad uno stato di disegno, così la casa a Minneapolis o l’altra a Salt Lake City ci riconducono all’archetipo del cubo di ghiaccio e a quello del blocco di creta, pronti però a disperdere subito il loro carattere di modello per effetto del tempo e del mutamento, secondo un insieme di connessioni che si sviluppano soltanto per dissolversi.

 

4 G.Pettena, “dal deserto rivisitato e dalla città invisibile”, in G.Pettena(ed.) Radicals. Architecture e design 1960/1975, Il Ventilabro, Florence, 1996

5  G.Pettena “ fisicizzazioni non consapevoli”, Casabella n° 392-393, 1974

6 G.Pettena, “Autorecensione di L’Anarchitetto” Casabella n°394, 1974

 

 

“Gianni Pettena e il rifiuto del lavoro”, 2017.

2018, M. Scotini (ed.), Non-conscious architecture. Gianni Pettena, Sternberg Press