LUCA CERIZZA

 

 

 

(…) Il lavoro di Gianni Pettena è attraversato da un senso di imprescindibile fisicità. Un ampio numero di opere nasce da un’attivazione del corpo, dal confronto tra questo, i materiali utilizzati e i costrutti spaziali che vengono delineati o investigati, in direzione di una sua osmosi con la natura e con l’ambiente. Un’attitudine “comportamentistica”, un atteggiamento performativo che percorre buona parte della sua opera, non solo quando il corpo diventa il soggetto del lavoro, ma anche quando sono i materiali (per lo più naturali) a essere trasformati come vedremo più avanti in situazioni di carattere più installativo. Il corpo, presentato e rappresentato fin dalle primissime opere del 1966- 67, non solo non abita il sogno tecnologico e futuristico di protesi tecnologiche e spazi protési a un domani utopico, ma è liberato nelle sue funzioni fisiche, per non dire “animali”. Le rarissime frequentazioni con il design hanno, infatti, un forte valore esemplare nel definire l’oggetto, non come forma sia pure non-funzionale (neanche nelle valenze totemiche e simboliche percorse da Ettore Sottsass iunior , dunque), ma come esperienza, appunto, fisica. Così il divano Rumble (1967) promuove una prossimità e una condivisione fisica tra gli utenti,8 mentre la sedia è concepita come dato potenziale che può essere attivato unicamente dal corpo di chi la trasporta, caricandola di caratteri ancora più direttamente performativi (Wearable Chairs, 1971). Non più oggetto ma esperienza, anche la sedia viene adattata a quelle forme di nomadismo che Pettena osservava come un fattore determinante della vita americana e della sua idea di architettura e società. Un coinvolgimento diretto del corpo avveniva d’altronde già nel progetto (mai realizzato) di un Tunnel sonoro (1966) dove un performer, vestito di una calzamaglia metallica, avrebbe dovuto attraversare un tunnel anch’esso metallico, tentando di ricreare il suono del vento.9 Se già da questo primissimo progetto Pettena dimostrava l’attenzione a un corpo che si fa natura, che attiva con il suo movimento una “gabbia” architettonica, un modulo geometrico simile a una scultura minimalista, con Paper/Midwestern Ocean (1971) un materiale povero e obsolescente come la carta è messo al servizio di un’altra esperienza spaziale. La conferenza che Pettena era stato invitato a tenere come parte della sua attività al College of Art and Design di Minneapolis viene trasformata in un’installazione: la foresta di strisce di carta che il pubblico deve percorrere per partecipare alla conferenza può essere attraversata grazie a un paio di forbici. Se le strisce servono proprio a dare evidenza visiva allo spazio (una “visualizzazione dell’aria”, per dirla con Bruno Munari)10, l’atto di ritagliarle per costruirci un itinerario incoraggia il ruolo attivo dello spettatore nell’attraversare e abitare lo spazio. Lo spettatore/studente è prima di tutto un individuo, sembra dire Pettena: è un corpo che costruisce il suo itinerario scavando nella materia uno spazio di possibilità. In questa azione il movimento del corpo produce un luogo, inteso come “ciò che il corpo vivente muovendosi produce”, e allo stesso tempo ci ricorda che il luogo “non è nulla di dato a priori”.11 Nel rompere la frontalità del rapporto con lo studente-auditore per attivare una partecipazione fisica all’evento, l’artista-professore declina il momento pedagogico in modi antiautoritari e performativi. Paper è, infatti, anche un primo esempio di una serie di conferenze-performance che possono essere anche lette come anticipazioni di una forma adottata con frequenza dagli artisti degli ultimi anni all’interno di una lunga esperienza di Pettena come insegnante, divulgatore, scrittore e curatore.12 Invitato dalla Architectural Association di Londra a tenere una conferenza (1972), Pettena decide di far processare la sua voce, aggiungendo degli effetti sonori provenienti dal nuovo sintetizzatore del suo coinquilino a Londra, un giovane Brian Eno. Due anni dopo porta sulle sponde del Tamigi gli studenti della Architectural Association: il discorso sull’architettura che Pettena sta tenendo deve ritirarsi davanti all’implacabile avanzare dell’alta marea alle sue spalle (Marea/Thames Tide, 1974, Londra). Questa retrocessione del logo V davanti alla natura ritorna in occasioni successive, in cui Pettena rinuncia a soddisfare le aspettative del pubblico, a “culturalizzare” la sua posizione di architetto-docente, in favore di un rapporto fisico con la natura, attraverso un vitalismo non privo di ironia sul ruolo dell’artista e dell’architetto che sarà una costante fino a oggi. Così, il corpo dell’artista coperto di pittura fosforescente s’immerge nel Canal Grande di Venezia come fosse un pesce che lascia il luogo designato alla cultura per ritornare nelle profondità del mare (Performance fosforescente, Palazzo Grassi, 1977, Venezia), o scompare nel buio del museo attraverso una fune (Le isole abbandonate dalla laguna, Palazzo Grassi, Venezia 1979), o ancora scala la roccia vicino alla sua abitazione a Fiesole (Il mestiere dell’architetto, 2002), in un’azione dall’alto valore simbolico in relazione al ruolo dell’architetto/ artista/intellettuale, sia nella scelta del luogo (la stessa roccia da cui un allievo di Leonardo da Vinci compì un fallimentare tentativo di volo). Infine, in una lezione-performance sul movimento dell’architettura radicale, il suo corpo, esattamente iscritto nella finestra dello spazio espositivo di Base a Firenze come se fosse l’uomo vitruviano, si affaccia sulla strada, a proseguire con la parola quell’apertura allo spazio pubblico che attraversa molte delle sue opere (La mia idea di architettura, 2014). Non è poi casuale che le sue azioni siano spesso compiute in solitaria. Pettena non ha mai guardato ai macro-contesti di visioni urbanistiche future, alle pianificazioni di nuove città e territori praticate con frequenza dalle avanguardie architettoniche, inclusa quella della sua generazione, e la sua pratica dice – e continueremo a vederlo con esempi successivi soprattutto di un individuo singolo, caparbiamente “a-sociale”. Racconta un corpo, spesso isolato; ipotesi di nuove forme di abitabilità in stretta relazione con l’elemento naturale, in una specie di regressione a una condizione pre-tecnologica. Dagli esordi fino agli anni più recenti, il corpo quello dell’artista come performer e del performer come spettatore è inteso come un sensore che misura il nostro rapporto con lo spazio dell’abitare e lo spazio del discorso, e ancora lo vedremo più avanti gli è affidato anche il rapporto diretto, tattile, organico con i materiali (per lo più naturali) con cui prendono forma ulteriori “architetture performate”. Architettura analitica Dopo aver mostrato alcuni dei modi in cui nel lavoro di Pettena il corpo è chiamato a un coinvolgimento diretto nello spazio della mostra, della natura e della parola, potrebbe sembrare incongruo discutere di un carattere “analitico” del suo lavoro. Eppure questa linea di attitudine concettuale, anche metalinguistica è un’altra delle diverse forme espressive che l’artista adotta con estrema disinvoltura per evadere dal rischio dello stilismo e aderire più precisamente al contesto in cui si trova a operare. Più specificatamente, diventa un mezzo con cui affrontare i fondamenti linguistici dell’architettura, il ruolo e le funzioni dell’architetto dal momento in cui rinuncia o è impossibilitato a seguire i modi ortodossi del suo operare (costruire). Un’attitudine analitica è necessaria anche a leggere il contesto in cui opera o che osserva, per mettere in questione non solo il linguaggio architettonico alla radice, i limiti e le potenzialità del suo vocabolario, ma le dinamiche di potere che attraversano il territorio. (…)

 

La reiterata riflessione dei rapporti tra architettura e natura che Pettena ha operato a partire dai primi anni Settanta ha continuato a manifestarsi negli ultimi trent’anni con grande continuità.32 Attraverso una serie di interventi quasi dimostrativi, Pettena suggerisce delle “contaminazioni” attraverso le quali la natura percorre il costruito, anche in modalità non necessariamente invasive come negli interventi americani. Esemplificativa in questo senso, anche per la sua cronologia e le sue potenzialità simboliche, è l’immagine fotografica Un’idea di bellezza (1979). L’elemento archetipale della piramide ripreso in epoca neoclassica nel Parco delle Cascine di Firenze per essere utilizzato come ghiacciaia suggerisce una lettura a più livelli: se l’idealismo di quella forma contrasta con la funzionalità del suo utilizzo, per cui l’architettura serve a “contenere” la natura, è sintomatico che Pettena scelga di mettere in evidenza questo contrasto proprio all’apice del dibattito sul postmoderno in architettura. Mostrando questa architettura corrotta dall’erba e immersa nella natura, in quello che è una sorta di saggio di architettura in forma fotografica, Pettena proclama la sua idea di bellezza, in una osmosi architettura-natura che vince la staticità di ogni idealismo progettuale. Insomma, l’architettura ha bisogno di una continua azione della natura, sembra dire Pettena anche in una serie di successive opere installative. Ha bisogno di respirare (Stanza, 1987; Branchia, 1999; Breathing Architecture, 2012), di essere innervata di movimento, attraverso una nuova pelle che riscatti l’immobilità di un edificio tardo-modernista in una zona degradata di Atene (Forgiving Architecture, 2009). Se l’uso delle strisce di carta in Paper/Midwestern Ocean (1971) serviva a visualizzare il rapporto del corpo con lo spazio, nell’installazione di Atene e in altre varianti di quel progetto (Architecture Ondoyante: Frac Lorraine, Metz 2014; Galleria Bonelli, Milano 2017; Kunst Meran, Merano 2017), quello stesso elemento serve a dare nuova dinamicità a diverse zone di un edificio, riscattando l’architettura dalla sua fissità. D’altra parte funziona anche come un sensore “low-tech” che misura la presenza di un elemento invisibile come il vento e in generale della natura, intorno e dentro lo stesso edificio. In alcune opere recenti, l’artista riprende l’idea di una natura che vince sull’architettura e il costruito che abbiamo spesso incontrato nel suo lavoro già dai primi anni Settanta. La città stessa, o almeno una sua stilizzazione in forma di grande installazione ambientale, potrebbe diventare solamente natura (Brano di città, 2009), trasformandosi in un’altra esperienza sensoria in questo caso olfattiva; una torre su una collina può diventare un grande cespuglio esploso in scala, che cambia colore secondo le stagioni (Torre di Brufa, 2017); un intervento di architettura del paesaggio celebra la mutevolezza della natura nel farsi muro/ protezione/architettura (Montagne naturali, 2017). Infine, con l’installazione Levitazione (2017) Pettena sembra riproporre quella dialettica tra natura e progetto, e natura e abitabilità che percorre il suo lavoro fin dal soggiorno americano. Se negli interventi di quel periodo l’uso dei materiali naturali sembrava accelerare lo scorrere del tempo e il suo impatto sulle convenzioni abitative della middle class americana, qui l’immagine finale sembra letteralmente sospesa in una ambigua relazione tra natura e artificio. I pali di legno che terminano come radici a mezz’aria vogliono forse simboleggiare una forma di violenza fatta alla natura per essere addomesticata e trasformata in materiale da costruzione; sembrano ricordarci che quelle colonne che sostengono l’edificio sono state in passato alberi, forme vive sacrificate alla necessità del progetto, alla funzionalità dell’abitare. Con queste ultime opere, in coerente continuità con il suo lavoro inziale, Pettena dà corpo ancora una volta a una visione in fondo pessimistica sulla possibilità del progresso, dell’architettura e della cultura progettuale di cambiare e migliorare il mondo attraverso un ordinato e razionale controllo della natura. Almeno fin dai tempi delle sue opere americane, il lavoro di Pettena insegna che il tempo della natura vince sulle speranze progressive coltivate dall’uomo, incarnate anche in un oggetto, in un’architettura, in una città. Unica “scuola d’architettura” frequentabile, solo la natura può insegnarci un lessico abitativo possibile. In una realtà ecologicamente drammatica come quella odierna, in un contesto politico ed economico in cui solo i fattori di progresso, sviluppo e crescita dettano l’agenda, Pettena sembra suggerirci che l’unica crescita felice è quella delle piante e dei fiori che coprono le sue opere.

 

8. In this sense, the difference between Archizoom’s Dream Beds (from 1967 onward) and Pettena’s couch is exemplary. The former was conceived as image, the latter as experience.

9. A later work (Progetto d’architettura n. 5, 1973) would go in a similar direction. In the context of a sound performance in which Davide Mosconi and Marino Vismara also took part, Pettena turned part of the Triennale di Milano into a musical instrument striking the ceramic tiles of the entrance hall and grand staircase of the building in Milan with vibraphone mallets.

10. Title of a contribution by Bruno Munari to the exhibition-event Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana, curated by Luciano Caramel (Como, September 21, 1969).

11. Massimo Cacciari, paper given at the 21st National Congress of the Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI), Rome, February          22–25, 2017: https://www.youtube.com/watch?v=7tYak_tTytQ

12 For a closer look at this area of Pettena’s activity see in this publication: Elisabetta Trincherini, “Gianni Pettena, in Theory,” XXX.

32. Some of his design projects dating from 1966, when he was still a student, already made references to the natural world.

 

 

“Per una decrescita felice. L’architettura critica di Gianni Pettena”, in Luca Cerizza (ed.), Gianni Pettena 1966-2021, Mousse Publishing, 2020.