JAMES WINES
JAMES WINES

JAMES WINES

 

 

(In "De-Architecture", Rizzoli International, New York ,1987)

 

Le incursioni artistiche di Pettena non furono molto apprezzate dalla gente delle due città (Minneapolis e Salt Lake City, n.d.r.)… Probabilmente questa reazione negativa derivò dall'uso che l'artista fece di elementi naturali generalmente considerati antitetici ad ogni idea di funzionalismo. Quando prevalsero le condizioni climatiche che fecero gelare l'acqua o seccare la creta, le strutture, secondo gli standard di vita dei suburbi americani, divennero inabitabili. Ghiaccio e creta in alcune civiltà sono scelte naturali ed ecologicamente "intelligenti" per la creazione di un riparo per l'uomo; eppure, paradossalmente, in un contesto nel quale l'edilizia si fonda su sistemi basati sulla tecnologia e su un ampio spreco delle risorse naturali, progetti che si servivano di questi materiali vennero guardati con apprensione e persino ostilità…

 

(In "Green Architecture", Taschen, 2000)

 

Per Pettena, la sua casa all’Elba è ”un posto per guardare le stelle”.

(…)L’effetto che fa la casa è quello di un collage primordiale…., isolata, modesta e improvvisata.

(…)Rappresenta un esempio di come i sopravissuti più fortunati potrebbero vivere dopo che la futura apocalisse ambientale che ci minaccia avrà costretto i fuggiaschi a vivere in lande desolate…

Per molti aspetti, questa struttura è il proseguimento del percorso filosofico che Pettena aveva intrapreso con i primi progetti. 

E’  l’accettazione del fatto che, nello scenario ambientale finale, la natura vince su tutto.  (…) la casa all’Elba è un’elegia architettonica pensata per un clima più contemplativo.  Si spoglia degli eccessi del consumismo ed è una dimostrazione del valore della modestia, della parsimonia, e di un senso primigenio di un’esperienza artistica che si traduce nella forma più semplice di architettura.

(…) La situazione di Gianni Pettena mi ricorda un incontro che si tenne a Cincinnati nel 1992 sul tema della “decostruzione in architettura”, un incontro in cui io perorai la causa di Gianni Pettena e di Gordon Matta-Clark (morto di cancro nel 1978) quali fondamentali pionieri della decostruzione, riferendomi alla loro maniera di utilizzare edifici già esistenti per sottolineare un intervento critico. La mia presenza a quell’incontro, in cui il mio interlocutore era Marc Wigley, acceso fautore della decostruzione, era la conseguenza di un controverso articolo, The Slippery Floor (Un terreno scivoloso, n.d.t.), che avevo scritto per un libro pubblicato nel 1990 da Academy Editions. In quell’articolo rimettevo in discussione le premesse concettuali di architetti come Eisenman, Koolhaas, Hadid, Gehry, Coop Himmelblau e alcuni altri, affermando che erano troppo condizionati da preoccupazioni di struttura e di forma perchè la loro architettura si potesse definire decostruttivista. Nell’incontro sostenevo invece che le opere di Pettena e di Matta-Clark, all’epoca quasi sconosciute nel mondo dell’architettura ufficiale, erano più vicine al tipo di contesto critico proposto dal guru della decostruzione, Jacques Derrida (e certamente di più di tutti gli eleganti tentativi neo-costruttivisti degli anni ’80 e ’90). Io interpretavo le teorie di Derrida (riferendomi al loro impatto sulla critica letteraria) come “un ribaltamento del linguaggio – o il linguaggio come critica del linguaggio – usato per mettere in discussione in letteratura l’abitudine di accettare la forma, la sintassi, la struttura e il significato: un modo per liberare il lettore dalle tradizionali formule strutturaliste, dai pregiudizi di interpretazione e dai rituali di lettura che possono inibire una comprensione più profonda delle comunicazioni scritte e verbali.” E ancora: “ Il processo di decostruzione prende di solito le mosse dalla premessa che la maggior parte della letteratura ha una struttura narrativa tradizionale, che di riflesso provoca un determinato uso del linguaggio. Ciò che Derrida ha chiamato gli “archétextes” costituisce un sistema di significati operativi da decostruire. È evidente che se si applica all’architettura un analogo criterio di lettura, occorrerà individuare degli “archetypes” come equivalente degli “archétextes”. In assenza delle parole come strumento critico, si dovrebbe ricorrere, in sostituzione, a un strumento di efficacia simile, per scoprire anche in architettura un livello equivalente di significati profondi. Se si tratta di edifici, questo linguaggio dovrebbe a rigor di logica derivare dalle componenti tradizionali e dai procedimenti di costruzione standard: in altri termini, un insieme di profili edilizi, di metodi e di materiali archetipici che inneschino di riflesso delle associazioni mentali in chi guarda.”

 

Nella mia arringa in difesa delle opere che Pettena e Matta-Clark avevano realizzato negli anni ’70 dimostrai come le loro idee fossero compatibili con una sensibilità decostruttivista, dato che i due artisti-architetti avevano spesso usato costruzioni archetipiche per i loro interventi: nel caso di Matta-Clark una serie di case di periferia, sezionate, svuotate e scavate, e nel lavoro di Pettena, una riconquista dell’architettura da parte della natura per mezzo di strutture anonime inglobate nel fango, nel ghiaccio o nel fogliame. Quando gli edifici erano caratterizzati da una metodologia che essi definivano “anarchitettura”, i tradizionali parametri progettuali di forma e funzione venivano abbandonati e costruzioni senza alcuna caratteristica particolare di colpo si trasformavano in una nuova categoria di esperienza artistica. Secondo me, questo uso dei processi del “non-costruire” per invertire, trasformare e contemporaneamente dare un giudizio critico sugli spazi abitativi, costituisce l’essenza della decostruzione in architettura.

 

Come Matta-Clark, Gianni Pettena ha compreso l’importanza di operare tra costruzione e demolizione, tra il design e il non-design, tra l’abitabile e il non-abitabile, tra il sedentario e il nomade, tra lo statico e il dinamico. Tuttavia, anche se tra i due artisti-architetti esistono affinità di intenti, tra loro vi sono anche grandi differenze. Matta-Clark era coinvolto fisicamente, aggressivo, e soprattutto preoccupato di ciò che egli chiamava “avere un impatto non-umentale” sulle situazioni architettoniche standard. Più intellettuale e più ‘epicureo’, Pettena si è concentrato sui fenomeni ambientali e sul loro effetto nei confronti del contesto costruito e, impegnandosi nel campo delle politiche pubbliche, si è interessato alle implicazioni mentali e prostetiche degli oggetti nel loro funzionamento quotidiano.

(…)

La mia amicizia con Gianni Pettena risale agli inizi degli anni ’70. Da allora abbiamo condiviso un dialogo ininterrotto, esperienze creative, viaggi per il mondo, piacevoli vacanze e anche gli inevitabili alti e bassi che accompagnano una vita fatta di prese di posizione in territori artistici pericolosi. Tutti e due ammiriamo gli stessi audaci pionieri della storia dell’arte e dell’architettura: Marcel Duchamp, André Breton,, Antonin Artaud, Samuel Beckett, Gertrude Stein, John Cage, Kurt Schwitters, Victor Tatlin, El Lissistsky, Iakov Chernikov, Frederick Kiesler, Antonio Sant’Elia e tanti altri che hanno avuto il coraggio di continuare per la loro strada senza soccombere alle tentazioni del compromesso per motivi economici. In ogni caso, questi artisti sono stati all’altezza della mia citazione preferita, tratta da Oscar Wilde, quel gran genio del XIX° sec. che rischiò molto (sia nella sua opera di letterato che nelle scelte di vita): “ Un’idea che non è pericolosa non merita di essere chiamata idea”.

 

Il lavoro di Gianni Pettena ci offre una combinazione rara di ribellione civile, di rischio estetico, di humour penetrante, di critica sociale e d’infinito ottimismo. Concettualmente, Pettena è stato motivato dalla necessità di ampliare le definizioni di architettura, ma sempre in una prospettiva di profondo e gentile umanesimo. Per questo ha contribuito a ricordare a un ambito disciplinare come quello dell’architettura, spesso ossessionato dai protagonismi, esteticamente gelido e motivato da interessi commerciali, che l’altra faccia della professione può essere artisticamente appassionata, generosa, e libera da condizionamenti economici. E che così, può essere anche molto più piacevole.

 

James Wines “Radicale gentile” 2002, AAVV, Gianni Pettena. Le métier de l’architecte, Editions HYX, Orléans

 

(…) A differenza di Robert Smithson, che ricorreva alla fisicità di siti geologici e/o industriali quali componenti intrinseche della sua arte, Pettena (in sostanza, un innovatore dell’urbanistica) usò come contenuto l’impatto evolutivo delle forze della natura. Quando ancora queste idee erano in via di definizione, spiegava: “La land art è storicamente più recente, e la mia differenza nei suoi confronti è evidente. Intanto, la scelta di occuparmi dell’ambiente urbano nel suo insieme, e in particolare di strutture di edifici, modifica l’intera gamma dei miei riferimenti e la allontana dalla grandiosità tematica dei grandi spazi vuoti che, per gli artisti della land art, era come disegnare su un foglio vuoto”. Anche se lui e Smithson condividevano il concetto di entropia e dell’azione di ‘vendetta’ della natura nel determinare il destino dell’arte ambientale, le trasformazioni operate da Pettena usavano l’architettura come contenitore passivo – invaso dal calore, dall’acqua e dal vento - e come una maniera di controllare e dimostrare l’effetto di queste forze naturali sulla definitiva smaterializzazione.

A livello internazionale il movimento dell’arte ambientale ha ancora una grande influenza, che si manifesta in maniere diverse, ma la qualità del dibattito e la volontà di intraprendere nuovi percorsi di ricerca sono regrediti, per la prevalenza dello stile rispetto alla sostanza. Come già detto nelle premesse di questa analisi del lavoro di Pettena e della sua generazione di artisti, la perdita di coraggio intellettuale è vittima del mercato della cultura e, in particolare, del pericolo rappresentato dalle promesse irresistibili di una carriera in crescita e della ricchezza che l’accompagna. Pur riconoscendo a ragione l’arte socialmente impegnata di oggi come lodevole nei suoi intenti, essa non è tuttavia allo stesso livello di innovazione concettuale di quelle motivazioni di ‘fuga dalle gallerie verso la strada’ che avevano innescato lo spirito di ribellione degli anni ’70 e ’80. E’ raro che nel campo delle arti, le idee concettualmente valide e che hanno grande influenza vengano subito accettate. Trovano invece di solito grandi barriere di resistenza se non di derisione che devono venire lentamente superate da un clima di graduale comprensione. Una assimilazione consapevole richiede spesso un’accesa polemica e una definizione consensualmente definita di portata epocale, cose che non sembra proprio possano emergere dai troppo facili e rapidi percorsi dell’odierno mercato dell’arte.

C’è un presupposto diffuso nella mondo della critica d’arte, ed è quello che il ricorso a qualche periodo dagli elevati valori estetici dei ‘bei tempi andati’, è una dimostrazione di nostalgia reazionaria. A volte questo è vero, spesso invece no. Ma è certamente vero che nell’arte le motivazioni più ‘sane’ come è confermato anche dai contributi di Gianni Pettena e della sua generazione sono quelle descritte da Richard Huelsenbeck nel ‘Manifesto Dadaista’ del 1918: “L’arte, nelle sue manifestazioni e motivazioni, dipende dall’epoca in cui nasce e gli artisti sono creature del loro tempo. L’arte più grande è quella che, nella consapevolezza dei contenuti, mostra i problemi dell’oggi.”

 

“Pettena Peripatetico, Note su un vagabondo visionario”, in The curious mr Pettena, Humboldt Books, 2017