IL RADICALE

ARTE AMBIENTALE

DIALOGHI / INTERVISTE

EMANUELE QUINZ
EMANUELE QUINZ

EMANUELE QUINZ

  

Emanuele Quinz. Dopo una prima esposizione e catalogo per la Biennale di Venezia (1996)[1], hai curato l’esposizione e il volume Radical Design. Ricerca e Progetto dagli anni ‘60 ad oggi che hai curata nel 2004[1], apre la prospettiva di un’estensione dell’esperienza “radicale” al di là degli anni 1960 e 1970, dall’architettura al design, includendo non solo le esperienze postmoderne degli anni 1980 (Memphis, Alchimia…) ma arrivando fino al design più recente di Ron Arad, Philippe Starck, Droog Design o dei fratelli Campana. Che cosa accomuna tutte queste esperienze, così diverse?

 

Gianni Pettena. I primi radicali scoprivano che il design era una magnifica maniera di costruire in scala reale (1:1) e verificare se il linguaggio usato era capace di comunicare il pensiero. Ed è diventato un virus. Un virus che, tra ragione ed emozione, poi si espande anche a generazioni successive e ne contamina in modo vitale il lavoro. Si vede poi che, tra i radicali originali, in pochi solo Branzi, Sottsass, Mendini e forse io continuano a giocare, a irridere funzioni, a precisare materie pensieri e linguaggi.

 

EQ. Invece sei sempre stato molto vicino a Hans Hollein, che aveva dichiarato nel 1967, « Alles is Architektur (tutto è architettura) »…

 

Il mio rapporto con Hans Hollein è guidato soprattutto dalla congruenza reciproca di atteggiamento verso la disciplina. Hans è uno splendido critico (dirige la rivista BAU), è per lunghi anni responsabile del Padiglione Austriaco della Biennale di Venezia, si alterna tra installazioni e architettura costruita… tre aspetti di relazione con la disciplina che sono anche i miei. E poi c’è la sua relazione con Walter Pichler, nato a 10 km dal posto dove anche io sono nato, solo che la sua lingua madre era il tedesco. Hollein architetto guarda all’arte ambientale e si esprime anche attraverso installazioni, Pichler, artista, guarda all’architettura. Entrambi quindi si raccontano attraverso un linguaggio ambientale che ha la necessità talvolta di rendersi anche funzionale. Io sento Vienna, residenza di entrambi, così come di Max Peintner, cugino di Ettore Sottsass jr., come un luogo a me consueto. Dopo tutto mia madre aveva un cognome viennese italianizzato… L’Austria e l’Italia convivono in noi naturalmente, addirittura per i tratti fisici, oltre a una comune cultura mitteleuropea.

 

EQ. Il termine di anarchitettura accomuna la tua ricerca a quella di Gordon Matta-Clark. Quali sono i punti di contatto e di differenza?

 

GP. Con Gordon ci conoscemmo nel marzo del 1973. Io avevo già pubblicato l'Anarchitetto, lui nel dicembre dello stesso anno aveva fondato il gruppo Anarchitecture. Erano pensieri ed emozioni che volavano nell'aria e in tanti respiravano quest'aria... Gordon aveva avuto un percorso del tutto identico al mio, con un oceano di mezzo. Entrambi avevamo studiato architettura, ci eravamo laureati e avevamo pure la licenza. Entrambi abbiamo preferito, senza conoscerci, adorare la nostra donna, « l'architettura », e non ridurla a battere sui viali per denaro... Ci conoscemmo a New York, in Union Square, nel bar che si chiamava Max's Kansas City. Io ci andavo con Bob Smithson, Nancy Holt, Lucy Lippard e Carl Andre. Al piano di sopra suonavano i Velvet Underground e cantava Lou Reed. Verso mezzanotte arrivava Warhol con la sua Factory...

Gordon Matta-Clark lavorava per azioni violente, definitive, su cadaveri d'architettura, operando una specie di colpo di grazia. Io utilizzavo metodi più soft: il vento, il gelo, il tempo, ma lavoravo spesso anch'io su architetture banali, di frangia, talvolta ormai senza vita... e comunque la natura avrebbe sempre vinto: nei tempi lunghi, qualsiasi architettura è destinata a diventare polvere.

 

1 Radicals. Architettura e Design 1960-1975, a cura di G. Pettena, ed. La Biennale di Venezia/ Il Ventilabro, Venezia-Firenze  1996.

2  Esposizione che si é tenuta a Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno, 25 giugno-26 settembre 2004. Cf. Radical design. Ricerca e progetto dagli anni '60 a oggi, catalogo dell’esposizione a cura di G. Pettena, Maschietto Editore, Firenze 2004.

 

EQ. Nel dialogo con Robert Smithson, pubblicato su Domus nel 1972, a un certo punto la discussione affronta il tema del concettuale. Se Smithson esprime la sua reticenza rispetto all’approccio concettuale, che considera come una forma di « riduzionismo » o di « idealismo », in quanto tende ad eliminare la dimensione fisica dell’opera, la tua posizione sembra invece più moderata, considerando il concettuale una « lezione » indispensabile, che permette di riconsiderare in un modo nuovo la dimensione fisica. Puoi spiegare meglio questa posizione? E come la rileggi oggi, alla luce delle successive trasformazioni del concettuale?

 

GP. Continuo a pensare che la lezione del concettuale di allora sia stata fondamentale, anche se, nel mio caso, non ho mai rinunciato a fisicizzare il mio lavoro. Forse allora ha aiutato a rendere i linguaggi più essenziali, scarni, precisi. Quando il concettuale e le sue evoluzioni hanno implicazioni spaziali, mi interessa ancora oggi. E infatti tanti artisti, negli ultimi anni, espongono « comprendendo » lo spazio, cosicché tutto diventa « installazione » – per esempio, Olafur Eliasson, di cui non si può dire che non abbia digerito le nostre ricerche di quegli anni.

Strange Design, It editions, 2014

 

 

INTERVISTA A GIANNI PETTENA

Gianni Pettena è un outsider. E fiero di esserlo.

Nato a Bolzano, si é formato a Firenze, alla stessa facoltà dei membri dei gruppi che hanno reso celebre l’architettura e il design radicale, da Superstudio a Archizoom. Ma anche se viene sempre incluso tra i radicali della prima ora, e si è largamente impegnato a promuoverne la “radicalità”, curando cataloghi e esposizioni, Pettena non smette di rivendicare la sua autonomia, e spesso anche il suo scetticismo. Partecipa attivamente agli eventi di gruppo dell’epoca, performance, esposizioni e serate sperimentali, che esplorano un approccio inedito e critico dell’architettura, spesso vicino alle pratiche dell’arte, ma non perde occasione per marcare le distanze. Negli anni 70, non segue i suoi colleghi sulla via del design, che porterà molti di loro – come Andrea Branzi – a spostarsi a Milano per lavorare con le industrie. E, quando tutti – dai designer e architetti più conservatori a quelli più iconoclasti – sono celebrati dal MoMa di New York con la celebre esposizione Italy : the New Domestic Landscape, rifiuta di partecipare. Invece, con uno spirito pungente di contraddizione e di provocazione, qualche mese prima espone, sempre a New York, alla galleria John Weber, delle foto dei deserti americani, scattate durante i suoi viaggi. Allo stesso modo, nel 1973, quando prende parte alla riunione di fondazione di Global Tools, gruppo che avrebbe dovuto riunire intorno a un progetto di scuola alternativa non solo tutti gli architetti radicali ma anche Ettore Sottsass, la redazione di Casabella con Alessandro Mendini e persino degli artisti dell’Arte povera, al momento della foto-ricordo, tira fuori un cartello con su scritto Io sono la spia. Anche nella sua lunga attività di insegnante, a Firenze, ma anche all’AA di Londra e negli USA, non ha mai smesso di sviluppare un approccio critico nei confronti dell’architettura moderna come imposizione di una norma, o del design come produzione di beni di consumo. Nelle sue opere, ha esplorato i mezzi della performance e dell’installazione, effimeri e aperti agli interventi esterni, giocando con l’instabilità degli elementi naturali, con il ritmo delle stagioni, con l’azione degli agenti atmosferici. Senza per questo rinunciare a mettere in campo le dimensioni simboliche che sono legate a tutte le azioni umane, o le implicazioni sociali. Senza quindi mai rinunciare a una vena politica, anzi.

Ancora oggi rivendica di essere l’unico architetto radicale a non avere ceduto al mercato, a non aver costruito niente, rimanendo coerente con i suoi principi rivoluzionari, con il suo desiderio di pensare l’architettura in un altro modo. Perché, pur non costruendo, Pettena rimane architetto. Un critico americano l’ha definito « architetto attivamente in sciopero », Branzi invece « architetto senza progetti ». Ma sempre e comunque architetto. Anzi, anarchitetto – termine che conia con un libro del Marzo 1973, poco prima del gruppo Anarchitecture fondato da Gordon Matta-Clark nell’autunno.

Il suo approccio, che associa sempre un esuberante e vitale entusiasmo a una rigorosa intransigenza, é vicino a quello del lavoro degli artisti concettuali americani che con cui dialoga sin dagli anni 70, e allo stesso tempo introduce una dimensione ecologica, di ascolto e attenzione allo spazio naturale – poco comune nelle riflessioni dei radicali italiani. In questo senso, il suo percorso é oggi riscoperto come quello di un pioniere, non solo nel mondo dell’architettura ma anche dell’arte contemporanea.

Per Pettena, l'architettura (come l'arte) non è un'attività estroversa, ma introversa; non procede per estrusione, come voleva Superstudio, ma per inclusione, per coinvolgimento: l'architettura è abitare diversamente. Ma soprattutto, è un processo mentale, una performance concettuale, che, per accadere, ha bisogno del vuoto, del silenzio, di una forma di "rifiuto". Quando negli anni 70, scopre i deserti dello Utah, al contrario dei suoi amici americani della Land Art, rifiuta di lasciare una traccia, considerando che nessun gesto è necessario se non quello di tacere, di astenersi, di assorbire, di lasciare andare. « Per arrivare al cuore dell'architettura », spiega Pettena, « bisogna smettere di farla: questa è la lezione del deserto ».

E la stessa logica presiede l’avventuroso insediamento all’isola d’Elba, dove negli anni 70 Pettena « trova » una capanna che diventa per lui una sorta di avamposto nella natura, ma anche di luogo di riunione per l’avanguardia artistica di quegli anni, allo stesso tempo riparo e opera d’arte/architettura. Fotografata e pubblicata dai giornali di design e architettura già negli anni 70, questa capanna é diventata un mito, e oggi, nel momento in cui l’urgenza della crisi ecologica ci impone di ripensare i nostri modi di abitare, e di rifondare il nostro rapporto con la natura, essa diventa ancora più esemplare, un vero e proprio manifesto di anarchitettura.

 

EQ. Quale è la storia della casa all’Elba?

GP: È una storia semplice. Da anni affittavo una casetta da un contadino pescatore, nel golfo del Viticcio, che è il golfo che termina col promontorio dell’Enfola. Era una vecchia capanna con ancora i mobili del pescatore, come una madia che era mezza scavata nel muro… e amavo andarci con la mia famigliola. Un giorno, mentre bevevamo insieme, ho chiesto al contadino pescatore: “è la terza volta che vengo qua e mi piace molto, non hai qualcosa da vendermi a poco prezzo? Ho 35 anni e sono un giovane assistente universitario, ho uno stipendiuccio…” E lui mi ha risposto, ”No abbiamo venduto tutto qua… a parte un bosco qua accanto ma non ci puoi fare niente, oppure il ricovero della rete da tonni che mettiamo in opera solo ogni stagione da tonni” - cioè da maggio ai primi di agosto - “ma è troppo piccola, non ci fai nulla lì”  e poi ha aggiunto, con aria schifata, “è troppo vicina al mare…” - aveva l’aria schifata perché il contadino pescatore cerca di stare alla larga dall’umidità del mare. Eravamo già più o meno alla seconda bottiglia di vino, gli ho detto, “Va bene, quanto vuoi?” “Ma guarda”, ha risposto, “non ci entra manco un letto lì, ma come fai?” “Ma quanto vuoi?” “Il prezzo di una roulotte in buono stato di seconda mano” e ha riso. A quel punto, io ho detto, “Qua la mano”. Come sai, fra contadini, il vero contratto è la stretta di mano, tutto il resto è solo burocrazia. Allora ci siamo stretti la mano e io il giorno dopo sono andato a vedere cosa avevo comprato.

 

EQ: Che anno era?

GP: Era il 1974. Quando sono andato in ricognizione, il giorno dopo, ho scoperto, scendendo dalla strada trenta gradini, facendomi largo fra i rovi, un casottino con il tetto sfondato da un albero che era cresciuto dentro, la rete da tonni ormai inutilizzata da una ventina d’anni e ormai tutta marcia… E intorno quattro pini secolari, un canneto bellissimo, e, dopo altri trenta gradini, il mare turchese.

Non credevo ai miei occhi. Insieme al casottino avevo acquisito 1000 mq di terreno boschivo, a picco sul mare.

EQ. Insomma hai fatto un grande affare!

GP: Sì, ma io l’ho comprata ad occhi chiusi! Ma da come il contadino aveva detto con aria schifata “troppo vicino al mare” ho capito che la casa era per me!

EQ: E poi la costruzione, come si è articolata?

GP: Intanto, orgogliosissimo, io ho cominciato a dire agli amici che avevo comprato un pezzo dell’Isola d’Elba… Poi ho chiesto in comune un permesso per farci un bagnetto… ma il casottino non era accatastato, allora come fai a dimostrare che esiste? Da un rigattiere, ho trovato una vecchia cartolina in cui si vedeva il terreno e il casottino – e questo documento è valso come un atto catastale. Una volta ottenute le autorizzazioni, ho semplicemente messo una tettoia in canne davanti per proteggermi dal sole. E poi, ho arredato l’interno con mobili comprati in una fabbrica di roulotte, un tavolo che si abbassava e su cui distendevi un materasso, un piccolo soppalco per le figlie, su un lato il bagnetto e dall’altro la cucinotta, tutto lì. E così ho cominciato non tanto a prendere possesso del luogo, quanto a radicarmici. Piano piano, raccogliendo pietre, ho fatto il pavimento, e con le canne del canneto e dei pali di castagno le pareti. Poi ho portato l’acqua e l’elettricità, unici compromessi alla modernità. Ho sempre utilizzato i materiali che trovavo attorno, per creare un riparo, una cuccia per me e la mia famiglia. Tutto lì…

EQ: E poi hai invitato anche degli amici artisti e designer a lasciare delle tracce?

GP: Un estate Alessandro Mendini ha affittato la casetta, e ha lasciato le prime tracce, dipingendo una parete e collocando al centro un mosaico. Poi Ettore Sottsass ha lasciato segni e colori su una parete, collocandovi anche un caminetto, poi Andrea Branzi ha disposto una banderuola e Ugo Marano, ha disegnato uno dei suoi tavoli in sospensione, “senza piano”. Ci sono anche un tavolo di Nigel Coates un attaccapanni di Lapo Binazzi e un bagno affrescato da Marco Pace. Le foto della casa sono state pubblicate, già negli anni 70, in diverse riviste.

EQ. Cosa rappresenta per te quella casa?

GP. La considero allo stesso tempo come un’opera di architettura e come un progetto di vita. Anzi, come un esempio di come architettura e vita possono – anzi devono – convergere. L’ho acquisita alla stessa epoca dei miei viaggi in America, dove ho frequentato comunità hippie, mentre facevo conferenze di architettura a Berkeley, a Auckland e a San Francisco. Già prima di partire, mi sentivo integrato alle visioni della controcultura, influenzato dalla musica sperimentale e dalla letteratura della Beat Generation. In quegli anni, nella casa milanese di Sottsass e di Fernanda Pivano, avevo incrociato Jack Kerouac, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg. Per cui possedere quel frammento di Isola d’Elba non significava possedere una casa o qualcosa – come volevano i precetti del consumismo imperante - ma piuttosto identificare un pezzo di natura in cui avrei fatto spazio per la mia tana, utilizzando i materiali trovati attorno - come qualsiasi animale, qualsiasi uccello, qualsiasi roditore…

EQ: Quando sei partito negli Stati Uniti, all’inizio degli anni 70, hai scoperto i deserti. Venendo dall’Italia e da Firenze, dove gli spazi sono carichi di storia e cultura, densi di abitazioni e monumenti, volevi ritrovare uno spazio vuoto. Ma, andandoci, ti sei accorto che non era vuoto, che in qualche modo anche quello era uno spazio abitato, un “luogo” dell’architettura.

GP: Esatto. In Europa, il paesaggio è totalmente stratificato, con una pesante presenza del passato, anche nel senso ambientale. Sulle colline toscane, ad esempio, si sovrappongono, ancora visibili, le tracce delle coltivazioni medievali e rinascimentali, e i tracciati delle strade dagli Etruschi e dei Romani. In questa densa maglia di stratificazioni storiche umane, all’architetto è concesso di agire solo nelle slabbrature, infiltrandosi nelle faglie, facendo un rammendo. Io invece volevo, come architetto, trovare un foglio bianco, uno spazio vergine, totalmente disponibile! Partito per gli Stati Uniti, la prima volta a Minneapolis, la seconda volta nello Utah per vedere i grandi deserti, per confrontarmi con l’assenza di passato, col foglio bianco. Ma mi sono accorto che questi sterminati spazi deserti, in cui la presenza umana sembra assente e la natura sembra trionfare incontaminata, in realtà sono stati e sono tutt’ora abitati. Esistono tracce di anticihi insediamenti. Ma soprattutto questi spazi sono i siti percorsi da tribù di nativi che hanno un’attività nomadica. E, il nomade, che cos’è se non uno dei tanti animali che si muove col cambiamento delle stagioni? Per me è stata una folgorazione capire che la Monument Valley - ciò che noi stanziali definiamo Monument Valley - i nomadi Navajo la chiamano “la Valle dei templi”. E poi scoprire, a Mesa Verde in Colorado, che dentro un’enorme caverna scavata alle falde di un canyon, si nasconde un paese intero… ho avuto l’impressione di cogliere d’improvviso il segreto dell’architettura: è quando manca la caverna che l’uomo comincia a costruire un riparo con i rami, o con quello che trova…

EQ: Quindi la prima abitazione è la caverna, e poi, come sostituto, viene la capanna?

GP: Tutte le case sono caverne artificiali… il modello che ho visto, della hogan navajo, è declinato in diversi posti del pianeta: dei rami, trovati nei posti più impensati, riuniti a forma di cupola e coperti di terra. È l’archetipo della casa, il punto di partenza dell’architettura.

EQ: Dici spesso che, a differenza dai Land artists che, negli stessi anni, esplorano nei deserti, e che tu hai frequentato negli Stati Uniti, tu preferisci non lasciare una traccia.

GP: Mi sembra assurdo che un cittadino che rifiuta la megalopoli dove é nato e abita, quando arriva nel deserto, si affretti a imprimere un segno del suo passaggio, come se volesse firmare il paesaggio, e attraverso questo gesto, tentare di appropriarselo. In questo modo, l’artista, cercando di scappare dal troppo pieno della città, è spaventato dal troppo vuoto del deserto, e sente il bisogno di sovrapporre a questo vuoto un segno, di riempirlo con il linguaggio, d’imporre alla natura il suo proprio alfabeto.

EQ: Quindi per te questo gesto – penso alla linea di Walter De Maria (Mile Long Drawing, 1968), che ha affascinato i membri di Superstudio -  costituisce già un atto di appropriazione.

GP: Sì, e di appropriazione nevrotica, aggiungerei... La nevrosi del cittadino, che rifiuta l’anonima crescita delle città, che rifiuta l’atto autoritario di chi le produce - l’architetto - e invece di ascoltare le voci e le forme che già sono presenti nello spazio, impone un marchio per entrare in rapporto con il deserto… credo che sia importante cercare di conoscere la preesistenza e rispettarla. Non significa rinunciare all’architettura, ma al contrario, il mio atto di architettura, visitando i deserti è di scoprire che sono abitati, cioè che quelle rocce non sono solo rocce ma templi, che la caverna non è solo una caverna ma una casa, un villaggio, le forme di abitazione del territorio di una popolazione nomadica.

Perché, appena comincia a costruire un muro e in questo muro c’è una finestra, il nomade diventa stanziale… pensa alla corsa verso l’ovest di questi pazzi bianchi che avevano attraversato l’oceano dall’Europa, e ti accorgi che questa gente costruendo muri, e case attraverso i muri, e poi finestre, si separa definitivamente dalla natura. Quando l’uomo non é più nomade (cioè parte integrante della natura), e la natura si guarda solo dalla finestra, essa diventa una controparte, un possibile nemico – come il temporale o la grandine che può distruggere i raccolti, le coltivazioni e gli animali allevati…

EQ: Questo rapporto che esprimi, con la natura, è oggi di grande attualità. Quindi, queste tue riflessioni - colme di enstusiasmo e di un’apertura gioiosa - che risalgono agli anni 70, indicano una forma di preveggenza rispetto agli approcci ecologisti di oggi, spesso forzati e lugubri, improntati a delle forme di moralismo. Ma all’epoca, questo tuo approccio non era condiviso dagli altri Radicali?

GP: No, gli altri Radicali non si sono assolutamente impegnati su questo fronte. Erano e rimangono dei rampolli dell’alta-media borghesia fiorentina, che cercano nell’architettura il modo per costruire un’identità distintiva. Si riuniscono pure nella Global Tools una scuola per artisti e architetti radicali allo stesso momento professori e studenti in gruppi di ricerca. I miei dubbi furono espressi nella foto ricordo in cui io mostrai il cartello Io sono la spia.

EQ: Nei collages del Superstudio o nei testi degli Archizoom, appare spesso l’immagine del deserto, della natura incontaminata, ma essa da l’impressione di un’immagine totalmente platonica.

GP: Sì, è una natura idealizzata e frigida. Come l’immagine della città, che hanno presentato nei loro lavori, distorta e presentata sempre in formati ridotti, irreale come un plastico. Mentre io e Lapo Binazzi, con il gruppo Ufo, preferendo la performance e le installazioni alle opere puramente visive, incorniciate o pubblicate su riviste, ci siamo sempre confrontati con la scala reale dello spazio urbano. Io sono l’unico radicale che costruisce, seppure in modo temporaneo, le sue architetture sempre in scala 1:1, sempre in dialogo col contesto urbano e sociale. Come nel caso di Campo Urbano, a Como (1969), come gli Ice I e II a Minneapolis (1971), la Clay House e il Tumbleweeds Catcher a Salt Lake City (1972) .

EQ: Comunque, nei tuoi progetti, promuovi sempre questo rapporto di osmosi con la natura. Penso a varie installazioni site specific - come Tumbleweeds Catcher, una torre costruita con assi di legno, alla periferia di una città americana, sulla quale si scontrano e si attaccano gli arbusti volanti spinti dal vento del deserto: un’architettura effimera che parla di fluidità, di libertà ma anche di interdipendenza. Oppure alla Clay House, in cui un materiale naturale come l’argilla ricopre una tipica casa americana, imponendo una revisione critica e allo stesso tempo esperienziale dei codici di comportamento dei suoi abitanti. Ma penso anche a alcune opere più recenti, architetture semplici su cui le piante crescono liberamente.

GP: Poi, riguardando i miei lavori, ho scoperto che anche nei miei vecchi progetti di design (quando ero ancora studente)  vanno in questa  direzione. Per esempio il divano che si chiama Rumble che si può decostruire: spostando i cuscini, il divano diventa una specie di nido, e ci entri dentro con gli amici. E avevo disegnato una decina di lampade tutte attorno che erano degli alberi stilizzati ma me ne son accorto trenta anni dopo! Avevo fatto un’allegoria della natura anche nella mia prima architettura!

EQ: Oltre al deserto, le montagne appaiono come degli elementi importanti per te. Sei nato – come me – a Bolzano, in una terra di boschi e di vette immacolate, le Dolomiti – che hai fotografato con il titolo La mia scuola di architettura,2013 .

GP: Sì, le montagne sono importanti. È una presenza che mi segue dall’infanzia, radicata nelle profondità dell’inconscio. Le mie prime memorie datano di quando io ero sfollato, durante la guerra, nell’albergo dei miei nonni a Moena in Val di Fassa, e mio padre era in guerra in Albania. Avevo tre anni, e le prime memorie sono lì, ci sono le passeggiate che mio padre quando veniva in licenza, ci faceva fare intorno al paese, e dietro, il fondale immobile e sublime delle montagne, a sfidarmi.

EQ: Ne hai mai parlato con Ettore Sottsass? Perché anche lui, nato a Innsbruck e vissuto per un po’ anche in Val di Fassa, spiega in un testo che le sue prime memorie sono i nostri boschi dolomitici dove ha scoperto “l’esperienza estetica”…

GP: Certo, e non solo con lui. Una volta, alla fine degli anni 70, ero in una birreria di Vienna insieme a Hans Hollein e a Walter Pichler, e al pittore Max Peintner – che tra l’altro era cugino di Sottsass. Parlando ci siamo accorti che eravamo tutti più o meno di quelle regioni – come del resto anche Raimund Abraham – e ci siamo chiesti se la forte presenza della natura, delle Dolomiti ci avesse influenzato nel nostro lavoro. E io dissi: “Facciamo una mostra dei nostri lavori e vediamo, e magari ce la facciamo finanziare dalla birra Forst!”[1] [risata] ma poi la chiacchierata finì là. Ma trent’anni dopo, io la mostra l’ho fatta, a Milano (Vienna e dintorni, 2013). Al di là dell’aneddoto, per me la montagna rappresenta all’inizio qualcosa di inarrivabile, anche se, a partire dall’adolescenza, ho iniziato seriamente a scalarle…

EQ: E poi hai fatto poi la performance Il mestiere dell’architetto (2000) in cui scali…

GP: … la roccia che è usata come palestra di roccia dal CAI di Firenze, un dirupo che dista poche centinaia di metri da casa mia qui a Fiesole – e che è il dirupo da cui Leonardo fece tentare il volo al suo assistente con la sua macchina per volare e lui si semisfracellò [risata]! E io infatti, in quelle fotografie che mi vedono attaccato con le mani e i piedi alla roccia, mi immagino come l’allievo di Leonardo che dopo essersi sfracellato sta cercando di ritornare sui suoi passi tutto scassato, ma con il cuore esaltato dall’esperienza del volo e dal contatto con la roccia…. materia… architettura…

EQ. In una delle tue ultime performance, la parola architettura scritta sulla sabbia è dissolta dalle onde del mare. Cosa resta, se l’architettura se ne va? L’arte? La vita?

GP. Ogni ego-trip del dittatore….e dell’architetto al suo servizio, perde sempre il confronto con la natura… L’uomo produce ciò che in secoli o pochi millenni la natura modificherà o annullerà. La natura ragiona per ere geologiche, assimila ed è pronta per le ere successive….se ci saranno….mannaggia !!!

[1] Marca di birra basata in Alto Adige.

 

in APARTAMENTO magazine, issue #28, autumn/winter 2021.'22