IL RADICALE

ARTE AMBIENTALE

DIALOGHI / INTERVISTE

HANS URLICH OBRIST
HANS URLICH OBRIST

HANS URLICH OBRIST

  

HANS ULRICH OBRIST: Non ho mai capito bene come si è costruito questo miracolo italiano, il radicale. […]

 

GIANNI PETTENA Questo miracolo italiano si può spiegare molto semplicemente. Intanto non aveva una caratteristica politica, a differenza per esempio dell’architettura degli hippies, la funk architecture, che era fatta da chi era in disaccordo con la guerra del Vietnam […]. Una controcultura che era una cultura della non violenza, in aperto disaccordo con i padri che erano violenti nel fare guerre contro il diverso, così come erano violenti contro la natura, che continuavano a inquinare senza alcun senso di rimorso, utilizzando il pianeta, come diceva Fuller, come un grande bidone della spazzatura. In Italia tutto questo arriva, ma senza queste connotazioni politiche. D’altro canto Andrea Branzi, Massimo Morozzi degli Archizoom e io stesso, avevamo un’attività politica come studenti, di contesta - zione della impostazione concettuale dei corsi, ed eravamo, naturalmente, forte - mente critici nei confronti dell’establishment, anche politico, non solo culturale. […] Si trattava, in poche parole, del nostro modo di criticare l’eredità modernista, soprattutto il modernismo italiano, ma non solo, cioè quando tutto il reale era solo razionale, e noi ci battevamo per un maggiore equilibrio, perchè il reale è una lotta quotidiana tra il razionale e l’emozionale

 

HUO E questo è l’inizio.

 

GP Sì, e siamo a Firenze. Il mio primo lavoro è del ’65, la trasformazione di un loft che avevo affittato in piazza Donatello. Sono anche gli anni in cui cominciano Archizoom e Superstudio, nel dicembre del ’66, con la mostra Superarchitettura. E poi nel ’68 gli Ufo.

 

HUO E quando hai cominciato chi erano i tuoi, diciamo, eroi? Perché la cosa interessante è che probabilmente non si trattava soltanto di personaggi dell’architettura.

 

GP I miei eroi, infatti, non erano gli architetti. Io amavo l’architettura. Mi ero iscritto alla facoltà di architettura, ma dopo il primo anno ho verificato che l’idea di architettura che veniva insegnata non corrispondeva alla mia idea di. Un’idea che piuttosto ritrovavo nelle gallerie d’arte, e così ero sempre all’Attico di Roma di Fabio Sargentini, alla Galleria Toselli a Milano e da Gian Enzo Sperone a Torino. […]

 

HUO In America non c’era una suddivisione rigida di discipline, tra il teatro, l’arte e l’architettura. Ma in generale quello non era un momento di segregazione tra discipline. […] All’università però la segregazione c’era.

 

GP Sì, c’era.

 

HUO E questo come ha influito sulla tua educazione?

 

GP Io sono rimasto un regolare studente di architettura. Cioè non andavo più alle lezioni, tranne a quelle in cui era strettamente obbligatorio. E la mia scuola è stato però il mondo delle arti visive, ma anche quello del teatro sperimentale. Ero amico, per esempio, di Carmelo Bene, che frequentavo regolarmente. […]

 

HUO Come ti ha ispirato Carmelo? Quale è stata esattamente la sua influenza?

 

GP In quegli assiomi che ci sono in fondo al libro L’anarchitetto, ho scritto “Dì che non ti piace il lavoro di Carmelo Bene”! Carmelo e il Living furono un’esperienza traumatizzante e totalizzante insieme, il Living usava lo spazio urbano e Carmelo lo spazio del teatro. Lo usavano rivoluzionandolo e trasferendo in esso il divenire della cultura del momento, ai livelli di ricerca più sofisticati. Quindi un ragazzo di 25-30 anni, in quegli anni, non poteva che subirne entusiasticamente l’influenza. Io ero l’unico architetto che faceva allora queste cose, e le facevo, come dico alle volte, proprio per amore dell’architettura. E’ stato l’ambiente stesso dell’architettura che mi ha costretto a lasciare, per continuare a fare un’architettura senza peccare, senza ridurla una serva della funzione e dell’investimento del denaro nel senso del profitto. L’architettura è costretta sempre a ridursi, per esistere, alla negoziazione con un investimento di capitale, che deve rendere, e soprattutto deve rientrare in una di quelle cinque, dieci tipologie, in cui l’architettura può esistere, cioè la casa unifamiliare, la sede della banca, la chiesa, il museo, lo stadio… Oggi, un’architettura deve essere così. Nel corso dei secoli, quando l’architettura era la trascrizione di un pensiero, in tutti i modi, in tutti i sensi, e talvolta è stata anche funzionale. […] La storia dell’architettura è piena di esempi che non rientrano molto bene nella sua storia odierna perché quella è una storia che riguarda al massimo una decina di tipologie architettoniche.

 

HUO È la stessa cosa per l’arte, in un certo senso. Anche per la Biennale, la mostra personale, la galleria, la fiera...

 

GP Negli anni ’60 invece, non essendoci un confine disciplinare nel campo della ricerca nelle arti, naturalmente non in quella degli strumenti di comunicazione, tutto questo non esisteva. […]

 

HUO: Si può parlare un po’ di come ti sono venute in mente queste invenzioni? Perché la Ice House è una fantastica invenzione. La “Casa cubo”, anche la Clay House, o soprattutto il Tumbleweeds Catcher sono di ispirazione per tanti giovani artisti oggi.

GP: Io volevo usare la natura, gli elementi naturali. Penso che l’architettura di oggi, ma anche quella di allora, di quegli anni, usi i materiali dopo averli uccisi, usi delle ossa. […] Io volevo anche usare il materiale naturale al massimo della sua potenzialità espressiva, e un materiale la cui produzione non provocasse ulteriore inquinamento, perché quelli erano gli anni in cui ho intervistato quattro volte Richard Buckminster Fuller. Proprio nei primi anni settanta, ’73, ’74. L’ho intervistato due volte per Domus, una volta per Casabella e una volta per Modo.

 

HUO: Buckminster Fuller diceva che non dobbiamo appartenere alle case perché le case sono un servizio.

 

GP: Sono un servizio, certamente. Sono una macchina per abitare, come diceva Le Corbusier.

 

HUO: […] Ma perché Firenze e perché Minneapolis? E [perché] queste invenzioni in queste città improbabili.

 

GP: […] Perché nasce l’architettura radicale a Firenze? Forse perché a Firenze la facoltà di architettura non era di grande qualità e gli studenti un po’ vivaci e un po’ attenti non lo sopportavano. Da un lato questo, dall’altro il fatto che abbiamo trovato due professori come Savioli e Ricci che ci lasciavano spazio: due allievi di Michelucci, che non insegnava più a Firenze anche se era ancora vivo. Forse dipende da questo, ma c’è da dire anche, e soprattutto, che Archizoom, Superstudio e io non eravamo dei fiorentini stanziali, eravamo sempre in giro.

 

HUO: Tutte queste esperienze del grande spazio, del grande spazio naturale, della tabula rasa, a partire dal ’72, per esempio About non conscious architecture o la Red Line, mi sembra che comincino già nel ’71 con la Ice House, la Clay House, il Tumbleweeds Catcher, che erano già un’architettura del paesaggio…

 

GP: Anche i miei viaggi nei deserti degli Stati Uniti dove scopro che i deserti non sono il vuoto […] Vedo che invece tutti questi spazi sono già delle architetture, non mie, ma sono le architetture di chi quegli spazi di chi li ha abitati. La Monument Valley non è una serie di rocce monumentali, ma è la valle dei templi dei Navajos che vivono ancora lì. Mesa Verde, Taos New Mexico, ma tanti villaggi ancora sono costruiti dentro delle enormi caverne. La stessa hogan dei Navajo è una bolla di terra, è una capanna, un existenz-minimum, uno shelter che esiste da sempre. Quindi questi spazi non sono affatto desertici, in primavera tutto fiorisce come in qualsiasi altro luogo, e c’è poi una seconda primavera nel tardo autunno, come succede anche nei paesi mediterranei. Ma soprattutto sono dei luoghi già abitati, già acquisiti come architetture perché il nomade solo quando non trova un’architettura naturale se la autocostruisce, si costruisce la caverna, ma altrimenti riconosce sempre l’architettura in ciò che la natura gli fornisce. Una grande caverna diventa il villaggio. Come gli animali, l’uomo migrante si sposta con le stagioni e in ognuna ritrova come coltivare, come ripararsi e come celebrare i riti verso i propri dei o verso le proprie memorie, cioè i propri morti. Quindi quei luoghi non sono naturali, sono già delle architetture.

 

HUO: Sono già dei luoghi in cui c’è cultura.

 

GP: Sono già dei luoghi acculturati perché anche se visibilmente non c’è il segno dell’uomo, concettualmente c’è. Io riparto da lì, dal massimo livello, sul piano concettuale, che si può avere facendo architettura, cioè riconoscerla già nella natura.

 

HUO: E il libro Architettura senza architetti dell’austriaco Bernard Rudovfski è stato importante per te?

 

GP: Era un catalogo di una mostra al MoMA. È un libro mitico di quel tempo, che tutti abbiamo amato.

 

HUO: Nel tuo lavoro ci sono dei riferimenti, ci sono infatti delle citazioni. La tua è evidentemente un’architettura senza architetti.

 

GP: Un’architettura senza architetti la praticano anche gli hippies, cioè i drop-outs dalla cultura ufficiale, quelli che abbandonano l’educazione dell’università per costruirsi una propria contro-cultura pacifista. La praticano con le architetture che si autocostruiscono utilizzando materiale di recupero da demolizioni di automobili o di altri edifici e dimostrano che dentro di noi esiste l’architetto, cioè esiste la capacità di costruire il proprio spazio. Solo che noi, gente delle popolazioni stanziali, non pratichiamo questa capacità, ma deleghiamo l’architetto a fare per noi lo spazio che saremmo in grado, se ci guardassimo bene dentro, di fare noi stessi.

 

HUO: Molto interessante. Prima di passare oltre alla tua epifania della tabula rasa volevo sapere un po’ di più sul Tumbleweeds catcher, una struttura che tu hai descritto come “un insolito skyscraper, un luogo di ambiguità e di chiarezze fisiche e concettuali”. […]

 

GP: Era anche una metafora, perché questi cespugli che rotolano sempre nel vento, che sottolineano le scene drammatiche nei film di John Ford, sono in effetti catturati […] al limite esterno della città. Quando sono vivi, stanno lì in mezzo al deserto, poi a un certo punto, alla fine della loro vita, il vento li strappa ed è allora che cominciano ad avere una vera vita. Cioè rotolano e fanno migliaia di miglia.

 

HUO: Ricomincia la vita.

 

GP: Dopo la morte. […]

 

HUO: E da questa tumbleweeds story, come ti è arrivata l’epifania del paesaggio, quella di About non conscious architecture, un lavoro documentato in un filmato girato per la Triennale nel ’73 e da tutta una serie di fotografie, che è molto più legato alla land art che all’architettura. Come sei arrivato all’epifania della tabula rasa, a questi enormi paesaggi?

 

GP: Perché io trovo che quelle sono le vere tipologie di cui parlare in architettura. Sono le architetture dove la mano dell’uomo compie degli atti poetici, così come, ad esempio, la land art aveva fatto con Michael Heizer o Robert Smithson. Dopotutto, loro facevano dei segni poetici: venendo dalla città tracciavano degli elementi di un nuovo alfabeto con cui dialogare con il contesto naturale, ma perdevano sempre nel confronto, perché la natura è gigantesca, è enorme. Qualsiasi cosa si faccia la natura è sempre vincente, sulla scala spaziale. Per questo io fotografo per esempio la Kennecott Copper Mine, un’enorme miniera a cielo aperto nello Utah, una miniera monumentale, di un miglio e mezzo di diametro e poco meno di un miglio di altezza. Quella è un’azione fatta dall’uomo, e non per ragioni estetiche, esclusivamente per ragioni pratiche, per l’estrazione del minerale e per poterlo poi lavorare e ricavarne la polvere di rame. È un monumento al lavoro dell’uomo perché da ottant’anni ci sono 200 persone che a turno, 24 ore su 24, scavano l’interno di una montagna. Solo in questo caso il lavoro dell’uomo riesce a competere con la natura. […] Questo poi vale per molti dei lavori fatti da me. Molti miei lavori sono delle osservazioni su altre cose, per esempio su ciò si trova in natura. E l’unico caso in cui il lavoro dell’uomo riesce a competere con la natura è questo enorme scavo fatto nell’arco di ottant’anni, che ha per me delle conseguenze estetiche, ma non era stato fatto per averne.

 

Interview with Gianni Pettena, Hans Hurlich Obrist, Londra 18-10-2009