IL RADICALE

ARTE AMBIENTALE

DIALOGHI / INTERVISTE

LUCA CERIZZA
LUCA CERIZZA

LUCA CERIZZA

  

LUCA CERIZZA. Al di là degli incontri e le frequentazioni eccellenti, immagino ci sia tutta una dimensione più “anonima” nel paesaggio umano e architettonico americano che ti interessava già, o che hai incontrato. Nelle fotografie che hai raccolto sotto il titolo di The Curious Mr. Pettena c’è appunto una ricorrente attenzione per forme diverse del nomadismo americano: dai caravan alle case su barche, dalle case prefabbricate alle comunità dei nativi indiani, ecc. D’altronde il titolo  che è un riferimento a Ettore Sottssas Jr. rimanda proprio a questo atteggiamento di curioso vagabondare che avviene soprattutto attraverso l’automobile. Anzi, correggimi se sbaglio, molte foto sono prese proprio dall’auto.

 

Gianni Pettena. Sì, certo, nomadismo, e pure “corto circuiti” disciplinari anche innescati da abitudini, trasformate e utilizzate poi (da chi di dovere) come critica concettuale, strategica e filosofica. Le origini di un dissenso che usa strumenti ormai nel DNA. Mi sento molto solidale nel notare, negli americani, questa libertà naturale, creativa, a inventarsi senza leggere apparenti contraddizioni o deformazioni: c’è forse in tutti loro un po’ di Steve Jobs.

Inseguire sogni viaggiando, muovendosi in auto. In treno o in aerei si è dentro un tubo…In auto esplori territori fisici e mentali.

Forse hai una rotta, ma non sai da dove vieni e dove vai, e le turbolenze che incontri ti attraggono e concentrano a sviluppare metodi per affrontarle, concentrato su quest’evento…parcheggiare davanti a un bar….accanto all’unica macchina davanti…leggere che è quella dello sceriffo…sbirciare dentro…la giacca dello sceriffo…al bar….lo sceriffo! É già il racconto di un’esplorazione.

E i dragsters…macchine normali trasformate per raggiungere la massima velocità possibile…in una pista…va bene…non importa!

E il tutto usando il massimo della tecnologia sviluppata fino a quel momento.

La nomadicità è nella mente…

...incrociare, guidando, una casa, che ti viene incontro, cos’è?

Capire il tutto in secondi, fermarti sul ciglio, e raccontare…

 

(…) LC. Quindi tu nomade a osservare altri nomadi…Possiamo dire che la mobilità e il nomadismo sono un tema fondamentale per la generazione di architetti e teorici che, dalla metà degli anni ’50 in avanti, prima in Europa e poi negli Stati Uniti, cercano di rompere lo schematismo e la pianificazione dell’abitazione e della città razionalista, il funzionalismo della Bauhaus. Dalla “Bauhaus imaginista” al Situazionismo, dal manifesto per un’architettura mobile di Yona Friedman alle città immaginate da Archigram, il mito del nomadismo arriva fino alla vostra generazione di “Radicals”, italiani e non. Nei tuoi viaggi americani andavi a confrontarti con la quotidianità di quella condizione, radicata nella cultura americana. Parlami dell’America nomade che vedevi.

 

G.P. In verità anche in questo caso io mi sento abbastanza “smarcato” dai “Radicals”. Le migrazioni erano quelle delle idee…Quelle effettive, quelle che ti facevano attraversare territori, erano per incontrare coloro le cui idee apparivano simpatetiche alle tue. Londra ad esempio era il centro, negli anni’60 in Europa, di una effervescente attività della nostra generazione di quegli anni, che riguardava i comportamenti, la musica la letteratura, il pensiero. Gli Stati Uniti erano, ancora di più, un luogo di profonda contrapposizione tra generazioni: quella dei padri che dichiaravano le guerre e mandavano i figli a uccidere e farsi uccidere… Cresce soprattutto li, sul piano ideologico, e per la prima volta dopo la guerra di Corea, in cui i giovani americani andarono senza un dissenso strutturato, il dissenso si articola in modo teoricamente più ampio. Il dissenso europeo era “intellettuale”, quello americano mandava la nostra generazione ad ammazzare e farsi ammazzare: la musica, la letteratura, la poesia e i teorici che affiancavano questa generazione come Marcuse, Reich e Fuller, cantava un dissenso profondo: la generazione dei padri si rapportava con il “diverso” con violenza…e con la stessa violenza questa generazione si rapportava anche all’ambiente…Fuller diceva che il pianeta era trattato come un gigantesco bidone della spazzatura. Fu naturale cercare basi ideologiche e filosofiche per un atteggiamento diverso. Andare in India significava la ricerca di filosofie che fossero la base del nascente pacifismo. Rapportarsi alla cultura dei nativi americani significava costruire un rapporto con l’ambiente nel rispetto che l’ambiente richiedeva. Se i “Radicali”, dal Situazionismo di Constant a Yona Friedman dagli Archigram all’Architettura Assoluta di Hollein e Pichler, al Monumento Continuo e Non Stop City di Superstudio e Archizoom sono la trascrizione del dissenso di queste nuove generazioni verso la “ prigione razionalista” ereditata, io, che avevo attraversato questi itinerari, mi ritrovavo già altrove: ero già più attratto dall’architettura riconosciuta nella natura dei nativi, dalla “autocostruzione” degli hippies e dal nuovo alfabeto linguistico e concettuale del Land Art di Long Smithson, de Maria, Christo, etc. L’emigrazione dei Radicals sono verso altre direzioni: l’immaginare una città “altra”, ma sempre in relazione con il pensiero d’architettura ereditato. La diversità dei nativi, degli hippies e degli artisti che immaginano un’architettura “altra”, è quella della autocostruzione, dell’abitare fisicamente e concettualmente in consonanza con l’evoluzione di un pensiero indipendente ormai dal dissenso verso le generazioni precedenti. I Radicals disegnano, fanno modelli o fotomontaggi: coloro che invece mi attraggono già costruiscono il loro pensiero, fisicizzano in abitazioni, spazi comuni e villaggi, il loro esistere, trascrivono in archittetura e comportamenti la loro ideologia. Ci sono più idee di architettura qui, e da qui in poi, che in tutta la proposizione di architettura “ufficiale” fino ai giorni nostri.

C’era perfino una comune Hippy che si muoveva su school buses dismessi e trasformati in abitazioni, che aveva come motto: “when in doubt, move it out”. Quella hippy è una nomadicità che è una naturale evoluzione di radicate abitudini dell’America più anonima e popolare.

 

LC. Come questa esperienza ha influenzato il tuo lavoro, da quei primi anni ’70 in poi?

 

G.P. Nel mio lavoro l’uso dei materiali di recupero da vecchie abitazioni o automobili, la volontà di rinaturalizzare i materiali da costruzione, l’analisi dei cortocircuiti tra natura e architettura, sono una diretta conseguenza dei voluti nomadici incontri con le comunità hippies, villaggi e riserve dei nativi nel Sud Ovest, la costruzione degli artisti ambientali del tempo, delle loro “architetture per la mente”. I miei lavori preferivano poi collocarsi nelle frange urbane, dove l’architettura perdeva identità e si slabbrava e la natura ormai era contaminata dall’espansione urbana.

 

Where I can get ride of these things, intervista di Luca Cerizza a Gianni Pettena, 6 / 7 /2017, The curious mr Pettena, Humboldt Books, 2017