IL RADICALE

ARTE AMBIENTALE

DIALOGHI / INTERVISTE

CHIARA COSTA
CHIARA COSTA

CHIARA COSTA

  

Chiara Costa: In America hai conosciuto diversi artisti, da Dennis Oppenheim a Christo, e soprattutto Robert Smithson, il cui lavoro però ti era già noto, immagino, da Asphalt Rundown lo svuotamento di un camion di asfalto bollente lungo il pendio di una cava sulla via Laurentina, a Roma, organizzato da Fabio Sargentini nel 1969. Hai anche esposto da John Weber, a New York, nel 1972, nello stesso edificio di André Emmerich, Leo Castelli, Ileana Sonnabend. Weber era la galleria che aveva raccolto l'eredità, in termini di scuderia, della Dwan Gallery, dove nel 1968 si era tenuta la leggendaria mostra "Earthworks". Erano gli anni dell'esplosione di Soho come "ombelico" del mondo dell'arte, e tu l'hai vissuto di persona. Ma quello che mi interessa chiederti è piuttosto cosa trovi quando torni in Italia: l'ambiente era provinciale o altrettanto stimolante?

 

Gianni Pettena: Non era affatto provinciale, anzi. Attraverso lo spirito di estrema apertura di quegli anni, le informazioni viaggiavano con noi. Potrei dire che c'era un'internet tutta nostra, della nostra cultura giovanile, cioè la musica, la letteratura, la super grafica, e le arti visive  e poca architettura. In America con Smithson si era sviluppata proprio un'amicizia in quegli anni, prima che morisse tragicamente. Però in Italia c'erano Jannis Kounellis, Mario Merz, Boetti, e tra i giovani critici Tommaso Trini. I miei interlocutori erano loro, già abbastanza conosciuti, anche se in un ambito abbastanza ristretto. Io ho cominciato a fare arte attorno al 1966, nel mio studio di piazza Donatello, che era lo studio di un pittore dell'800, col soffitto alto 6 metri. Era un porto di mare dove passavano in tanti; al piano terreno c'era lo studio di Remo Salvadori frequentato da altri suoi compagni di Accademia come Sandro Chia, Marco Bagnoli e tanti giovani artisti fiorentini che poi, soprattutto d'inverno, finivano in casa mia, perché era riscaldata ed era piena di riviste e di libri, da "Artforum" a "DATA", a "Flash Art" e tante altre. Lo scambio era continuo. Il problema era semmai questo mio retropensiero secondo cui l'Europa era troppo condizionata da una pesante presenza del passato, nelle città ma anche nelle campagne, anche nella natura. Se quello era un bosco, o se quello era una determinata coltivazione, era già stato deciso in un certo periodo storico, di lasciare il bosco a bosco, di coltivare olivi, viti; c'era un disegno, cioè la presenza del passato, in varie stratificazioni, era evidente e condizionante. In sostanza non c'era un foglio bianco! C'era un foglio di carta dove c'erano già le tracce, alcune illanguidite, altre no, dei passaggi precedenti, del tutto legittime, ma in fin dei conti io aspiravo al foglio bianco.

 

CC.: Questa necessità di una componente di imprevedibilità mi fa pensare a John Cage. Per te la musica è stata un luogo di scambio e di contatti?

 

G.P.: Sicuramente attraverso Giuseppe Chiari, che conosceva anche Cage in-fatti. È importante sottolineare sempre quanto non considerassimo allora i con-fini disciplinari! Attraverso Chiari ho conosciuto anche il compositore Vittorio Gelmetti, che nel 1964 aveva composto le musiche per Deserto Rosso di Antonio-ni, e aveva lavorato anche con i fratelli Taviani e Carmelo Bene. Io e Chiari andavamo spesso a Roma ospitati da Gelmetti. La sera suonavamo (improvvisando) nello studio a Trastevere dei "Musica Elettronica Viva", la MEV di Alvin Curran, Frederic Rzewski, Richard Teitelbaum, e Steve Lacy, uno dei primi gruppi a sperimentare le possibilità di trasformazione del suono attraverso il sintetizzatore, che nel 1967 aveva suonato anche con Cage.

 

Applausi,  la scena è aperta, Gianni Pettena & Chiara Costa , TV 70, Fondazione Prada, 2017