IL RADICALE

ARTE AMBIENTALE

DIALOGHI / INTERVISTE

BRUNO CORA'
BRUNO CORA'

BRUNO CORA'

  

Bruno Corà – Prima di riflettere sul tuo lavoro, mi sembra opportuna una premessa, quella cioè che riguarda quegli aspetti, quei caratteri che ti hanno ispirato, che ti hanno guidato fino all’attualità. Quali sono questi aspetti quando tu decidi di abbracciare la vocazione di ‘anarchitetto’, quando cioè hai identificato e messo a punto questa vocazione del fare architettura facendo arte?

 

Gianni Pettena – Sono quegli elementi che si riconoscono già nei lavori che ho prodotto in Italia alla fine degli anni ’60 e che si ritrovano, amplificati, quasi depurati dall’attenzione che non si può non esercitare nel rapportarsi con un contesto così storicizzato e fin troppo condizionante com’è quello europeo, nei lavori fatti negli Stati Uniti tra il ’71 e il ’73. La mia produzione di questo periodo viene identificata e collocata, ad esempio nel pensiero e nei saggi di James Wines così come nel testo di Alan Sonfist Art in the Land del 1983, come ‘arte fatta dagli architetti’ insieme al lavoro di Gordon Matta-Clark. Matta-Clark e io veniamo considerati dalla critica come ‘environmental artists’, cioè come operatori artistici che continuano a parlare di problematiche d’architettura pur usando gli strumenti dell’arte, uscendo dalla realizzabilità tecnica di un prodotto architettonico per produrre un’architettura che parla di assunti teorici e di lavoro sperimentale e non di architettura ‘definitiva’. E questo perché gli stessi strumenti che gli altri artisti usavano in quel momento, ci apparivano come linguaggi adatti a parlare anche di architettura. Molti artisti d’altra parte parlavano e parlano d’architettura: James Wines è un artista che parla d’architettura, Gordon Matta-Clark e io stesso siamo degli architetti, educati in una scuola d’architettura, però ci esprimiamo piuttosto in termini d’arte.

 

B.C. – Evidentemente ci sono state delle esperienze che ti hanno indirizzato e anche autorizzato a pensare che questo fosse possibile. Intendo dire, esiste, a monte di questa tua vocazione, un riferimento ad autori che, per esempio come Pannaggi per il Futurismo o come Schwitters per il Dada, si fossero misurati con il rapporto tra l’opera e l’ambiente, tra lo spazio architettonico e l’opera plastica. Ci sono questi riferimenti?

 

G.P. – Senza dubbio. Sant’Elia e Depero, da un lato. Questi sono però riferimenti ricostruiti in seguito, a valle di certe fenomenologie originarie.

 

B.C. – Cioè, su chi ti sei formato?

 

G.P. – Io mi sono formato nelle gallerie d’arte come L’Attico o Toselli. I riferimenti erano in fondo soprattutto i miei coetanei che si esprimevano con una libertà a me sconosciuta, perché io mi sentivo costretto a esprimermi all’interno delle tematiche e delle convenzioni del fare architettura attraverso il progetto. Ho invece cercato, come altri in quegli anni, di fare architettura superando la fase del progetto, cercando forme di fisicizzazione non metodologicamente rigorose, almeno non così rigorose come quelle che erano previste dai canoni del razionalismo degli anni ’30, che venivano ancora insegnate nelle scuole d’architettura.

 

(…)B.C. – In termini invece di radici, quindi di rapporto con il contesto ambientale di provenienza, le tue origini nordiche, quello che può essere definito il ‘de re aedificatoria’ del mondo alpino, quel modo di concepire l’architettura, tutto questo ha avuto qualche influenza, oppure tutto nasce in relazione al contesto dell’architettura fiorentina in cui poi tu ‘precipiti’?

 

G.P. – Ci sono delle memorie che riemergono, che sono quelle dell’ambiente fisico, naturale, delle Alpi, non l’ambiente alpino costruito: quelle che io chiamo architetture ‘inconscie’ (anche se non allora, ma successivamente) e che poi riemergono in forma anche di architettura. Nella Monument Valley in fondo, nei primi anni ’70, dove io mi limito ad elencare o catalogare le ‘architetture del vento’, mi rendo conto, a guardarle oggi, che sono in tutto simili a quelle memorie, che sono le architetture naturali del contesto alpino delle Dolomiti. Questo senza dubbio riaffiora anche in Paesaggi della memoria, un’opera del 1987, profili di montagna ritagliati in plexiglass che io mi porto all’interno di una valigetta, per una mostra da tenersi a Otranto. I profili delle montagne che mi hanno accompagnato, come sfondi e come scenografia, nei miei primi anni di crescita e di maturazione: da quando ho memoria i miei confini, le ‘quinte’ all’interno delle quali operavo, sono queste montagne, quelle che riemergono in quest’opera. Vado a Otranto, cioè nella parte più a sud dell’Italia, e mi porto dietro questi ‘paesaggi ricordati a memoria’.

 

B.C. - Poi c’è l’impatto, invece, con l’ambiente qualificato, disegnato, progettato, della città rinascimentale, col quale sembra appunto che tu abbia avuto immediatamente una volontà di interferenza, di rapporto, un confronto-scontro, una volontà di modificazione del preesistente, di farsi spazio, di reclamare uno spazio. In che anni siamo esattamente?

 

G.P. – Siamo nel ’68 circa.

 

B.C. – E questo è il Dialogo Pettena-Arnolfo di San Giovanni Valdarno.

 

G.P. – Sì, è un lavoro su un palazzo attribuito a Arnolfo di Cambio, che viene letto e sottratto, nelle volumetrie dei loggiati, alla percezione del pubblico, con una decorazione parietale/murale che chiude temporaneamente gli spazi vuoti dei loggiati e ricostruisce il volume originario esaltando, fra l’altro, il disegno della facciata.

 

B.C. – Adottando tuttavia un tessuto, uno schema grafico, minimalista, direi.

 

G.P. – Una tessitura che è strettamente contemporanea a quegli anni, e che comunque esprime attraverso la materia e la grafia della facciata la necessità di creare spazio, di reclamarlo al proprio presente, in una città tutta costruita e ereditata dal passato. Questo progetto in fondo già dimostra un’attitudine che, come ho avuto modo di osservare in seguito attraversando il mio lavoro, è sempre presente, a dimostrazione forse di come i miei inizi dopotutto non vengano mai contraddetti: l’attitudine di innescare il rapporto con un ambiente, un edificio, un contesto, attraverso una modificazione, una riappropriazione. Questo si può riferire all’allestimento di San Giovanni Valdarno, il mio primo lavoro pubblico, come ai lavori più recenti.

 

Bruno Corà – Paper è ancora un lavoro fatto negli Stati Uniti?

 

G.P. – Sì, è del 1971. È un’installazione, un interno in cui lo spazio viene completamente saturato da strisce di carta appese, e il visitatore che entra costruisce il proprio spazio e il proprio itinerario tagliando, all’altezza che vuole e nel modo che vuole, le strisce di carta che riempiono lo spazio.

 

B.C. – Le espressioni della cosiddetta ‘arte programmata’ che avevano avuto corso in Europa e anche in Italia, per esempio le esperienze di Gianni Colombo con lo ‘spazio elastico’, di Enzo Mari, di De Vecchi, di Boriani, erano state per te di un qualche interesse?

 

G.P. – Sì, soprattutto quelle di Gianni Colombo. Lo spazio elastico, lo spazio che si modificava quasi in rapporto alla presenza di un visitatore, uno spazio che sente la presenza del corpo, di chi questo spazio attraversa. Forse però il più interessante degli spazi fu per me lo ‘spazio nero’ di Lucio Fontana, il suo ambiente ‘nero’ riproposto a ‘Spazio dell’Immagine nel 1967 a Foligno.

 

B.C. – Invece, sul versante nordamericano, erano presenti per te le esperienze sui camminamenti costruiti da Nauman, o da Sonnier?

 

G.P. – Da Nauman, da Sonnier, da Fulton, così come le catalogazioni dei Becher. Sono esperienze avvenute talvolta quasi contemporaneamente alle mie, difficile verificare se prima o dopo. Erano comunque pensieri di cui l’artista, in qualche modo, si rendeva interprete.

 

B.C. – Le immagini di questo percorso compiuto dai visitatori all’interno dello spazio ottenuto con il taglio delle fettucce di carta, hanno una valenza visuale. Quale importanza annetti a questa valenza visuale?

 

G.P. – Un’importanza molto grande, perché è ancora una volta il percorso dell’uomo che dà senso allo spazio, è il corpo umano che movendosi è strumento di misura di uno spazio fisico. Che questo sia un interno o un esterno non importa, anche se in un interno spesso lo spazio fisico ha una sua valenza e un suo rigore di meditazione che spesso lo spazio esterno non ha. Lo spazio esterno spesso mi coinvolge sul piano della performance, letto cioè come un luogo da cui l’attore costruttore è appena uscito di scena, è sempre una scena teatrale, uno spazio simbolico, e così anche per lo spazio naturale.

 

B.C. – Che cosa ti ha indotto a disegnare e poi a realizzare le Sedie da indossare?

 

G.P. – Era un altro percorso nella città, ed era la presenza del corpo, essenziale come strumento di connotazione di questo oggetto che, pur con tutte le sue consuete simbologie, qui ha un senso solo se è indossato. Questa sedia ha un senso solo se è indossata, altrimenti è disarticolata, e ha avuto un senso infatti, in questo caso, solo quando è stata indossata. Portate in uno spazio mussale poi, queste sedie sono come degli ex voto, sono la testimonianza di una vitalità precedente e ormai compiuta, un modo per ricordare a chi viene dopo che questi oggetti sono ormai devitalizzati perché il corpo non li sta più indossando.

 

B.C. – E questo disegno sulla deviazione di un fiume, fa parte dell’insieme dei lavori prodotti per Trigon ’72?

 

G.P. – Sì, il titolo è Nascita istantanea di un albero. Si produce ipoteticamente un tassello nel tessuto urbano per la nascita di un albero, e questa porzione di tessuto urbano, pur se rimane sospesa, è come se ne fosse ancora parte. È, in qualche modo, ancora la rivincita della natura sull’architettura, cioè il primato della natura sull’architettura, come in questi altri lavori realizzati a Minneapolis, Ice I e Ice II, vere e proprie indagini sugli spazi urbani, nei quali la natura riconquista gli spazi ormai usati e lavorati dall’uomo rinaturalizzandoli e riconnotandoli attraverso la propria estetica, attraverso le proprie logiche. In questo caso si sfruttava la temperatura delle notti invernali di quel clima, particolarmente rigido, e il risultato è che la natura riesce a modificare l’anonimo contesto urbano.

 

B.C. – Dunque un approccio alla topologia urbana americana molto diverso da quello di Dan Graham con ‘House of America’, dove l’intento era invece quello della notazione sociologica attraverso l’analisi contestuale di una periferia anonima nordamericana. Direi che qui, invece, siamo più in consonanza con quel gruppo di esperienze che si possono ascrivere, così come è stato fatto da molta critica di quel tempo, al lavoro di Gordon Matta-Clark, e però anche a un’architettura visionaria, penso a Sant’Elia per esempio.

 

G.P. – La Red Line però, il mio lavoro a Salt Lake City che visualizza l’intero confine comunale attraverso una traccia di colore, è un intervento sul contesto urbano che voleva ancora sottolineare l’aspetto del percorso, del comportamento, la valenza antropologica, quasi come l’azione di una lumaca che con la bava delimita il proprio territorio…Aveva per me un significato di riappropriazione di un ambiente, all’interno del quale ogni azione compiuta acquista un significato diverso da quello che la stessa azione assume se compiuta al di fuori di questa delimitazione.

 

B.C. – Sempre avendo presenti dei riferimenti che appartengono all’arte più che all’architettura e all’urbanistica, in che considerazione tenevi l’esperienza spazialista della ‘linea’ di Manzoni negli anni in cui concepivi e realizzavi quest’opera?

 

G.P. – Il supporto, come mi ricordi, è diverso. Il supporto, per Manzoni, erano dei rulli di carta. Qui la ‘fettuccia’ è la strada stessa, rimane a documentazione della divisione tra territorio inscritto ed escluso e anche dell’itinerario che è stato percorso fisicamente, perché questi quarantacinque chilometri sono stati percorsi, sono stati fisicamente dipinti, quindi la linea rossa sulla strada è anche documentazione di un’azione, di un comportamento, del percorso da te compiuto, e del tuo appropriarti di questo spazio.

 

B.C. – Comunque rimane il codice spazialista.

 

G.P. Che può essere paragonato a quello di Richard Long, di Hamish Fulton, e a quello di molti land artists che producono un segno, un percorso in contesti urbani o naturali, tracciandolo fisicamente.

 

B.C. – La dialettica con la planimetria della città e il suo sviluppo sembra consistere nel fatto che questa linea rossa traccia un perimetro inclusivo della città dentro il quale perimetro si legge il tessuto di tipo cartesiano della città stessa, mentre il perimetro è assolutamente anticartesiano, si oppone a questo.

 

G.P. – È più organico, dettato dalla conformazione fisica del luogo. Sì, qui emerge la contraddizione determinata dall’intervento dell’uomo, che impone le sue leggi a un contesto naturale: la Red Line, insieme al Tumbleweeds Catcher e alla Clay House, gli altri due lavori prodotti a Salt Lake City, costituiscono una trilogia ove viene reclamato il primato della qualità del linguaggio della natura sull’architettura, e anche gli Already seen portable landscapes, che sono le memorie delle osservazioni da me compiute attraversando gli Stati Uniti, il midwest, la zona del Grande Lago Salato, delle montagne rocciose, le dighe, le strade, la Monument Valley…, memorie ordinate e catalogate così al mio ritorno, dopo circa due anni di peregrinazioni, di osservazioni e di scoperte.

 

 

B.C. – Qui siamo a Canazei, mi sorprende, una nuova architettura..!

 

G.P. – Insieme alla mia casa all’Elba, questo è l’unico edificio da me costruito ex novo.  Anche in questo caso è un dialogo, questa volta non con Arnolfo di Cambio, ma con il padre di Sottsass, Ettore Sottsass senior, ed è l’ampliamento dell’edificio anni Trenta da lui progettato e costruito a Canazei, in provincia di Trento.  L’intervento è il raddoppio, speculare a questo, dell’edificio originario.  Viene riconosciuto il ruolo del primo edificio, costruito per primo, e i suoi connotati, anche linguistici, vengono trasferiti nell’edificio nuovo.  Il vecchio e il nuovo sono distanziati, costruiscono un dialogo, il nuovo si spezza in due volumi, anch’essi distanziati, così da costruire, insieme al vecchio, un brano di tessuto urbano.  L’incrocio pedonale che ne deriva è un brano di città, una piazza, un luogo di ritrovo, di conversazione.  I tre volumi sono collegati da scale e ponticelli così che funzionalmente operino come un unico organismo.  Un’unica copertura, come per la casa dell’Elba, conclude l’edificio.  E le metrature tra i due blocchi fanno sì che il complesso venga percepito come un’unica costruzione.  Il nuovo edificio con quello originario ‘costruiscono’ una nuova facciata, ma appena girato l’angolo, sul retro, l’edificio nuovo si assume la responsabilità del proprio tempo e parla un linguaggio più propriamente contemporaneo.  All’interno si vede come l’edificio nuovo si spezzi quasi come in una ‘foresta pietrificata’ e dialoghi con il tessuto urbano contemporaneo.

 

B.C. – Qui però c’è architettura, è evidente!  Allora ci sei caduto nel mestiere dell’architetto…

 

G.P. – Sì, è vero.  Ma relativamente, perché questa è in realtà una citazione di natura, è una foresta pietrificata ma comunque una foresta, una citazione di ciò che fa da sfondo all’edificio.  D’altra parte anche all’Elba la natura alla fine si ‘pietrifica’ in qualche modo.

 

B.C. – Qui a Canazei c’è un pronunciamento forte, deciso, con una qualità ideologica non indifferente, sull’idea della costruzione.  L’edificio che ne risulta diventa un unicum esemplare.

 

G.P. – Accetta il confronto con il mondo reale.  C’è una continuità storica, c’è continuità concettuale, c’è la dichiarazione che è possibile lavorare in un contesto storicizzato creandosi il proprio spazio senza compromettere il rapporto con la storia.

 

B.C. – Chiudiamo questo percorso con un’opera come quella di Cassino, che sembra saldare il cerchio.  In Archipensieri c’è l’icona dell’architettura rappresentata dal tempio, ma il tempio, col timpano e le colonne vengono riconfigurati, e allo stesso tempo l’opera si annuncia come scultura, perché è costituita da elementi liberi nello spazio, che producono in questo direzioni talvolta contrastanti, e che di volta in volta producono relazioni binarie, ternarie, per cui scultura e architettura si integrano, oppure confliggono.  Si annunciano contemporaneamente, così come l’arte e l’architettura contemporaneamente possono esistere ed integrarsi.

 

G.P. – È  un cerchio che si chiude per riaprirsi immediatamente.  Reclamano la stessa dimensione spaziale e lo stesso linguaggio.  Questi elementi nello spazio hanno bisogno di un proprio contesto per avere un senso.  Assumono il ruolo di raccontare quanto lo spazio dell’arte e lo spazio dell’architettura siano assimilabili: quando lo spazio deve in qualche modo farsi comprendere, è meglio che questo avvenga in forma di installazione, di happening, che certo lo illustrano con maggiore attenzione, più di quanto lo possa fare l’architettura che riesce solo raramente a ottenere risultati simili.  È molto più difficile raggiungere questi risultati quando si è ingombrati da funzioni, budget e limitazioni di regole e norme.  L’inventore di spazi ha bisogno di documentare il proprio processo di pensiero con più continuità e libertà.

 

Bruno Corà

Gianni Pettena, AAVV, ‘Architectures Expérimentales 1950-2012 – Collection du Frac centre’ HYX Editions, Orléans