DIALOGO CON      DICONO DI LUI       ATTIVITA DIDATTICA                  



FREDERIC MIGAYROU
FREDERIC MIGAYROU

FREDERIC MIGAYROU

 

 

Gianni Pettena è un architetto e niente ci permette di mettere in dubbio la natura della sua attività cercando di assimilarla a quella di un artista. I suoi interventi sono unici, rispondono il più delle volte a un programma di progetto che egli si è proposto e mantengono con attenzione una eterogeneità che si ribella di fronte a ogni uniformità di stile o di pratica. Gianni Pettena si è sempre occupato di architettura e nessuno come lui è stato attivo sul piano critico, e su quello pedagogico, per far vivere la disciplina con pubblicazioni e mostre. E tuttavia, Gianni Pettena si è sempre negato all’architettura, ha sempre rifiutato la sua strumentalizzazione, ha rifiutato il fatto che praticarla significhi chiudersi nelle rigidità di una professione. Radicale egli lo è più di ogni altro, dopo che si sarà allontanato da tutte le strade scelte dai suoi compagni del movimento radicale sia italiani che austriaci. Rimane uno dei pochi a non essere caduto nel baratro del neo-storicismo postmoderno, e ad aver accettato decisamente lo scontro che ha opposto i radicali ai neorazionalisti nell’Italia degli anni ’70.

L’ “anarchitetto”, come il titolo stesso del suo libro-manifesto sottolinea, si propone di ricondurre l’architettura ad una origine di azione diretta. Egli denuncia: “Per essere architettura, per poter esistere ufficialmente, per essere ‘autorizzata’, l’architettura deve corrispondere a determinate categorie, deve seguire le regole e basta”. In un’Europa segnata dai totalitarismi e dalle distruzioni della guerra, l’opposizione a un razionalismo che si perpetuava dietro l’apparenza di un discorso sociale marxisteggiante in cui gli autori erano gli stessi degli anni del fascismo, è stata una situazione difficile da accettare per la generazione degli anni ’60. L’effetto di liberazione Pettena l’assumerà in modo incondizionato, rifiutando ogni riferimento a un’architettura moderna basata su un’economia di separazione, della città dall’architettura, dell’architettura dal design. La negazione di ogni principio d’identità, di ogni regola, sarà presente nell’opera di Pettena come una costante immutabile: egli cercherà senza tregua di condurre l’architettura al suo fine, di compiere il suo destino, di far accettare la sua finitezza attraverso la permanenza dei suoi oggetti.

 

[...]  Gianni Pettena considera il suo passaggio da Salt Lake City come il punto di svolta della sua intera ricerca, l’esperienza di un rapporto col territorio dove l’architettura si manifesta sempre come prossima alla sua scomparsa, dove essa è sostenuta dalla consapevolezza che le deriva da una attualità, da una presenza. Se è evidente l’affinità con le ricerche sul territorio di molti artisti, tuttavia egli non innalza il paesaggio ad un ambito spaziale privilegiato, un ambito di estensione, metafora ultima della pittoricità o scultoreità. Architetto che cammina, Pettena fa dello spostarsi lo strumento di comprensione della permanenza, della stanzialità. Con Already seen portable landscapes (1973) la sua opera di architetto viene riportata all’efficacia duchampiana. Il suo book d’architetto, il suo portfolio, il suo carnet di disegni, i suoi rilievi (per rifarsi a tutta la tradizione della Bildung architettonica) sono ricondotti a un insieme di architettura ready-made, un insieme tipologico di monumenti naturali, montagne di roccia isolate del deserto americano che s’impongono come eventi pre-storici della consapevolezza umana dell’architettura. L’architettura sta nella nostra capacità di decidere che cosa è architettura, che cosa determina una permanenza e una universalità del paesaggio. Con questo ‘bagaglio’ nella valigia, Pettena considera la natura come cultura architettonica e con ciò prende le distanze dal patrimonio troppo architettonico di una italianità divenuta per lui inerte e ingombrante. Egli condivide questo tentativo di ‘naturalizzazione’ con Gordon Matta-Clark che, con un gesto similare, definirà il costruito come la materia prima di un intervento di scultura. L’attività dell’architetto viene allora concepita come una descrizione, come la cassa di risonanza di una determinazione qualitativa propria del sito. Nel suo dialogo con Robert Smithson viene evocata la nozione di partecipazione e, riferendosi ai paesaggi delle architetture industriali dismesse, entrambi attribuiscono al loro stato di destrutturazione una capacità unica di definire una leggibilità di ciò che nell’architettura è evento, la sorgente dinamica di un lavoro che Robert Smithson ripropone nei suoi interventi. Parlando di entropia, “di entropologia”, essi si rifanno a una citazione di Claude Levi-Strauss che cercava di analizzare la fascinazione delle culture nei confronti di un’estetica della rovina. In veste di geologo, Robert Smithson dirà “che basta seguire il procedimento ed è possibile che così nasca una costruzione”.

Con Quarry (1970) Gianni Pettena ritroverà in un’antica cava quei gesti primari in cui l’architettura era intervento fondante; essa è occupazione del suolo, incide e lascia il segno nel territorio, dialoga con il contesto e rimane aperta all’evoluzione, al mutamento. Questa memoria attiva di una naturalità dell’architettura indirizza tutto il cammino dell’architetto; è un’attenzione che si ripropone anche con un altro ‘bagaglio’, una valigia di plexiglass, materiale che gli permette di comporre un paesaggio di sagome trasparenti di montagne, una sorta di memoria immediata, di museo reattivo, che ironizza sulle pretese monumentali degli architetti (Paesaggi della memoria, 1987). Paper (1971), che richiama una mostra realizzata da Hans Hollein, utilizzava delle larghe strisce di carta per ristrutturare e ricomporre uno spazio che si moltiplicava in una complessità fenomenica infinita. Questo ‘ingombro’ spaziale, unito alla semplicità e all’unicità del materiale, creava in modo immediato e spontaneo il senso di una partecipazione all’architettura che portava al gioco e alla distruzione. Il fascino esercitato su Gianni Pettena da Salt Lake City, città fondata nel 1847 dai mormoni, è almeno pari alla sua sensazione di ‘pietrificazione’ nei confronti di quell’universo che è la città storica in Europa. Una storia così breve, lascia la città in uno stato di indecisione in cui il confine è ancora attivo, aperto, in cui il suo stato di sedimentazione non è stato ancora raggiunto: un’energia quasi organica che Gianni Pettena celebra con esultanza. Con Red Line (1972), l’architetto si impadronisce della mappa della città, gioca con la rappresentazione geometrica del territorio, territorio che gli appare molto improbabile se confrontato con l’eccezionalità di un contesto naturale che invece, secondo lui, costituisce la sorgente stessa di una comprensione urbana della città. Segnando sul terreno, fisicamente, il confine amministrativo della città, egli traccia una linea indeterminata, “raffigura” l’agglomerato urbano, lo rappresenta in ciò che esso ha di vivo e di aperto. Il suo grande interesse per Olmsted (F.L. Olmsted. L’origine del parco urbano e del parco naturale contemporaneo, Centro Di, 1996), il famoso urbanista e paesaggista americano la cui concezione, prevalentemente sociale, si basava su un’idea di territorio ‘aperto’, risponde a questa ossessione di uno spazio che sfugge alla oggettivazione, risponde cioè alla volontà di una naturalizzazione permanente di tutto ciò che potrebbe divenire permanenza, monumentalizzarsi, e alla fine negare una temporalità che è propria dell’ uomo.

 

(…) L’architettura c’era già, è sempre stata presente, ha accompagnato tutti i momenti della costruzione del contesto dell’uomo. Ciò che Pettena indica con forza è che l’architettura non ha alcuna oggettività, e che essa non si trova nelle innumerevoli stratificazioni di materiali e di tecnologia di cui sono ovunque composti i nostri spazi urbani. Le sue foto che mostrano deserti, strade, montagne, impianti industriali dismessi, sono tutti documenti in cui noi non vediamo l’architettura, ma in cui l’architettura si rivela con forza e determinazione nell’organizzazione dello spazio, in composizioni complesse che vanno ben al di là delle più vertiginose costruzioni della disciplina architettonica (About Non-Conscious Architecture, 1972-73). Costruire significa capire, significa innanzitutto risalire alle origini del gesto architettonico, liberare il concetto dalla sua storia, sgombrarla del fardello che l’ha resa un’arte di riferimento. Pettena che fa una conferenza su una spiaggia invasa rapidamente dall’alta marea, è un fatto che ci costringe a prendere in considerazione la sua ironia nei confronti di ogni riferimento alla “autorità” (Marea, 1974). E questo non sarà il minor paradosso di percorso di Gianni Pettena, di colui che ha portato alle estreme conseguenze il dinamico vessillo di un’architettura concettuale, un’architettura che percepiva come illusorio il trionfo di uno storicismo post-moderno ormai tramutato in estetica commerciale. Da una performance in cui cercava di definire lo spazio attraverso il suono (Progetto d’architettura N°5, 1973) fino a Itaglio (1987), egli ripercorrerà il campo in cui l’architetto può esercitare la sua disciplina, aumentando e ampliando così considerevolmente l’ambito di consapevolezza di ciò che è proprio dell’architettura. E dimostrando che questa continua pratica concettuale non è inconciliabile con il campo dell’esercizio professionale dell’architettura.

Sono numerose le realizzazioni che nel percorso di Gianni Pettena indicano in quanti modi si può svolgere un intervento architettonico. Grass architecture (1971) per esempio, un insieme programmatico di 3 disegni, che definiva il criterio di un rapporto con il suolo in cui l’oggetto architettonico non nasceva da un atto di fondazione o di costruzione, ma da un semplice gioco morfologico fatto di sollevamenti, di scollamenti. Oppure, osservando che i cespugli del deserto venivano fermati nella loro corsa dalle recinzioni dei contadini, Pettena ha realizzato il Tumbleweeds Catcher (1972), una grande torre in cui i cespugli accostati fra loro si compongono in un monumento accidentale. Questa architettura di ‘assemblaggio’, in continuo mutamento, formalmente condizionata dagli elementi del suo contesto, capace di riprodursi e rinnovarsi continuamente con costi minimi e massima flessibilità, la ritroviamo oggi. E’ nelle intenzioni di tutta quella giovane architettura che è alla ricerca di una vera alternativa allo hardware delle costruzioni che si vedono ovunque. Allora, una realizzazione come il Nuovo Municipio di Canazei (1990-1997) che riorganizza le funzioni dei due edifici per mezzo di un collegamento leggero, discreto e ‘vegetalizzato’, e ovviamente la famosa Casa all’Isola d’Elba (1978-), hanno oggi il significato di un manifesto. E’ l’architettura minore a connotare una possibile economia del costruire: l’idea di un’architettura dolce, vicina all’uomo, in continuo mutamento fisico e morfologico, una costruzione definitivamente liberata dall’architettura e dalla sua storia. Quest’uomo aggrappato a una parete di roccia, aggrappato a un’architettura, è l’architetto. Non ha la pretesa di costruire una montagna, si sposta, cerca delle prese, è Gianni Pettena.

 

Architetture antropiche,

2002, AAVV, Gianni Pettena. Le métier de l’architecte, Editions HYX, Orléans.