EMANUELE QUINZ
EMANUELE QUINZ

EMANUELE QUINZ

 

 

 

 

(…) In una delle sue prime apparizioni, il Monumento Continuo di Superstudio è sovrapposto a un Earthwork di Walter de Maria, Mile Long Drawing (1968). Si afferma il confronto con la Land Art americana - ed è il deserto a costituire il legame.

Ma é soprattutto Gianni Pettena a prendere questa via, instaurando un dialogo serrato con gli artisti americani, in particolare con Robert Smithson, che incontra a Roma nel 1969, poi a Minneapolis, con cui visita Spiral Jetty nel 1972 e con cui dialoga su Domus[1]. Se Smithson è interessato alle rovine, alle tracce di insediamenti umani sottoposti all'erosione della natura, Pettena è interessato alle formazioni naturali come tracce (a volte invisibili) di insediamenti umani. Se per Smithson - che Pettena si ostina a considerare un architetto - l'architettura si rivela come natura, per Pettena la natura si rivela come architettura - come spiega nella sua opera, troppo poco nota, La città invisibile (1983) e nel saggio introduttivo (Dal deserto rivisitato alla città invisibile) del catalogo dell’esposizione da lui organizzata alla Biennale di Venezia del 1996. In quest'ultimo testo, che è una pietra miliare nella storiografia dell’architettura radicale, Pettena parte ancora una volta dal deserto, analizzando le opere di Heizer, Smithson e Oppenheim, e descrivendo le aride pianure del sud-ovest americano che visitò nel 1972. Durante questo viaggio, concepito come un pellegrinaggio "in fuga dalla città, luogo dell'artificio" verso "territori incontaminati se non dal sole, dalla pioggia, dal vento"[2], Pettena scopre "che i deserti non sono il vuoto":

 

[...] Al contrario, tutti questi spazi sono già architetture, non mie, ma delle persone che li hanno abitati. La Monument Valley non è una serie di rocce monumentali, è la valle del tempo dei Navajos che ancora ci vivono. [...] Questi spazi sono già abitati, già acquisiti come architetture, perché è solo quando il nomade non trova un'architettura naturale che la costruisce lui stesso, costruisce la grotta, altrimenti riconosce sempre l'architettura in ciò che la natura gli fornisce.[3]

 

Per Pettena, l'epifania è la meta del viaggio, la trasformazione interiore. Basta osservare, analizzare, capire e, infine, documentare con fotografie (About Non-conscious Architecture, 1971). Non è necessario lasciare una traccia, come hanno fatto gli artisti della Land Art o Gordon Matta-Clark (con cui Pettena condivide l'invenzione quasi contemporanea del termine anarchitettura). Per Pettena l'architettura (come l'arte) non è un'attività estroversa, ma introversa[4]; non procede per estrusione, come voleva Superstudio, ma per inclusione, per implicazione: l'architettura è abitare diversamente. Ma soprattutto, è un processo mentale, una performance concettuale, che, per accadere, ha bisogno del vuoto, del silenzio, di un "rifiuto". Fissando il deserto che sembra disabitato e non lo è, nessun gesto è necessario se non quello di tacere, di astenersi, di assorbire, di lasciare andare:

 

Anche se non c'è un segno visibile dell'uomo, concettualmente c'è. Parto da lì, dal livello più alto che si può avere nel fare architettura, semplicemente riconoscendola nella natura.[5]

 

Per arrivare al cuore dell'architettura, spiega Pettena, bisogna smettere di farla: questo è l'insegnamento del deserto.

Ed è proprio questa la strada intrapresa da Pettena, “l'anarchitetto”, l'"architetto attivamente in sciopero"[6], l'"architetto senza progetti"[7], la cui intransigenza, che lo avvicina al rigore dei più esigenti artisti concettuali americani, non si inaridisce nell'arido esercizio dell'osservazione o della proposizione analitica, ma rimane sempre abitata dall'entusiasmo e da una vitalità molto latina. Le sue opere sono azioni leggere ma incisive, effimere ma senza tempo, interventi performativi che lasciano spazio all'azione degli elementi naturali - come Tumbleweeds Catcher (1972), una torre costruita con assi di legno alla periferia di una città, su cui inciampano e si aggrappano i mulinelli soffiati dal vento del deserto - un'architettura effimera che parla di dissoluzione, flusso, interdipendenza.

Questa stessa intransigenza lo tiene a distanza dal design - i pochi oggetti che progetta - come il divano Rumble (1967) - possono essere interpretati come primi esempi di 'design critico'. Invitato alla grande mostra sul design italiano al MoMA di New York nel 1972, rifiutò di partecipare e pochi mesi prima dell'inaugurazione si vendicò esponendo le sue fotografie di deserti alla John Weber Gallery. Allo stesso modo, quando partecipò alla riunione di fondazione della Global Tools, presso la redazione di Casabella, all'epoca della foto ricordo, espose un cartello con la scritta Io sono la spia (1973).

Nel percorso di Pettena, il deserto - ma anche la montagna, le Dolomiti dove, come Sottsass prima di lui, Pettena è nato, e che considera la sua "scuola di architettura" - costituisce la base per sottrarre l'architettura alla meccanica funzionalista, alla banalità e serialità della produzione, alla schiavitù del consumo, alla deriva del design, e, al contrario, ma anche per ricollegarla alla sua matrice, che non è solo spazio ma soprattutto tempo: "abitare il tempo (senza esserne alienati) è un po' come abitare il vuoto del deserto"[8], "senza dover pensare subito a un uso, immediato o futuro, utile al meccanismo e all'integrazione di esso liberandosi dalle abitudini"[9]. Nel vuoto, l'architettura diventa evento, comportamento, esperienza - in una parola: vita.

 

Emanuele Quinz, “Relire Les Radicaux Italiens – à partir du desert”, Critique, n.889-890, Paris, Les Éditions de Minuit, Septembre 2021, p. 649-652. 

 

[1] Gianni Pettena, Robert Smithson, « Conversazione a St. Lake City », Domus, n.516, novembre 1972, republiée in Gianni Pettena, Non-Conscious Architecture, Marco Scotini (éd.), Berlin, Sternberg Press, 2018, p. 78-85. Cf. aussi Emanuele Piccardo, Amit Wolf, Beyond Environment, plug_in, 2015.

[2] Gianni Pettena, Dal deserto rivisitato alla città invisibile, in Radicals. Architettura e design 1960-1975, Gianni Pettena (éd.), VI Biennale Internazionale di Architettura di Venezia, 15 septembre-17 novembre 1996, Florence, Il Ventilabro, 1996, p. 13.

[3] Gianni Pettena, intervista con Hans Ulrich Obrist, in Gianni Pettena 1966-2021, Luca Cerizza (éd.), Milano, Mousse Publishing, 2020, p. 13.

[4] Cf. Marco Scotini, Gianni Pettena, il rifiuto del lavoro, in Pettena, Non-Conscious Architecture, op. cit., p. 56.

[5] Pettena, entretien avec Hans Ulrich Obrist, op. cit., p. 13.

[6]Joseph Masheck, 1972, in Scotini, op. cit., p. 23.

[7] Andrea Branzi, « Differenze radicali » (2003), cit. in Ibid., p. 22.

[8] Scotini, op. cit., p. 23.

[9] Gianni Pettena, « Fisicizzazioni non consapevoli », Casabella, n.392-393, 1974, in Radicals, op. cit., p. 115.