ELISABETTA TRINCHERINI

 

 

 

(…) La seconda parte degli anni Settanta vede impegnato Gianni Pettena in varie performance: è il caso di Marea, a Londra nel ’74, una conferenza tenuta con i piedi in acqua alla foce del Tamigi durante l’innalzamento della marea che, salendo, finisce per interromperla, simboleggiando così nuovamente quella necessità di bilanciare la componente noetica, di comprensione concettuale, con quella dei sensi, spesso coincidente con l’urgenza dei fenomeni naturali.

Del ’77 è la partecipazione al Festival Internazionale The Art of Perfomance a Palazzo Grassi a Venezia con la Performance fotofosforescente, che vede l’artista coperto di vernice fluorescente, alla presenza del pubblico, nel buio totale, percorrere, tenendo in mano il cubo di Escher, lo scalone d’onore, l’atrio affacciato sul Canal Grande, per immergersi lentamente in acqua. Centrale è il rapporto tra reale e immaginario, come spesso accade nella dimensione teatrale (qui già fortemente evocata da musica, luci e location) e ulteriormente ribadita dalla figura impossibile di Escher (un’illusione ottica bidimensionale che la nostra mente è portata erroneamente a leggere come tridimensionale) che è qui realizzata come se realmente fosse in 3D. La costruzione di uno spazio con elementi inconsueti è una delle chiavi per leggere il lavoro dell’artista. La fisicizzazione di elementi idealmente iscritti alla sfera dell’immaginario che sono qui in nuce e che troveranno compiuto svolgimento con le opere della serie Archipensieri negli anni 2000, testimoniano che costruire nello spazio-tempo fisico e in quello della mente ha, nell’opera di Pettena, lo stesso grado di concretezza.

Il successivo lavoro per The Art of Perfomance a Palazzo Grassi, nel ’79, è Isole abbandonate della laguna. Una serie di monitor tv mostrano immagini delle isole che si trovano in condizione di abbandono. L’artista, camminandovi sopra, sembra passarli in rassegna pensoso e quando si ferma al centro davanti al leggio che suggerirebbe una sua conferenza-spiegazione prova a parlare, ma rimane muto, e dopo alcuni tentativi opta per una scenografica uscita di scena verso l’alto tramite una fune che lo solleva immergendolo tuttavia, spiega l’autore, “nel buio dei suoi fallimenti”.

Il tema della conferenza, già utilizzato per performance precedenti e giustificato dalla parallela attività di critico e docente, qui viene ripreso nella forma più paradossale, la sua mancata attuazione: è però di nuovo, come per Marea, in linea con il predominio delle forze naturali. Le isole abbandonate rispondono all’idea simmeliana di rovina secondo la quale questa si dà nel momento in cui in un edificio, ideale equilibrio di natura e spirito, la natura prende il sopravvento rivoluzionandone la forma. L’idea dell’abbandono suscita malinconia ma va inteso come frammento di una nuova realtà, in divenire, aperta a future possibilità, in cui la passività umana, qui simboleggiata dal conferenziere muto, si dota di una valenza positiva perché diviene complice dell’azione naturale che completa, appropriandosene, quanto gli uomini hanno cominciato a “mandare in rovina”.

In linea con l’ottica sin qui adottata di prediligere l’aspetto performativo dell’operare, di Pettena è possibile ricordare nel successivo decennio degli anni Ottanta il lavoro Poltrona Ombra, 1986: elementi flessibili, inseriti tra fodera e tessuto di un cappotto dell’artista, consentono a chi lo indossa di potersi sedere all’interno ma permettono anche, dal momento che “la poltrona” si autosostiene, una sua performatività autonoma. Opera pensata non tanto in qualità di oggetto ma in quanto luogo dell’abitare tout court che, come normalmente accade, conserva una memoria, un riflesso, un’ombra di chi l’ha vissuto anche in sua assenza. Idealmente ricollegabile alle Wearable chairs del ’71 che però traevano la loro logica di esistere solo quando indossate, qui la valenza è doppia ed è in rapporto all’uomo sia che questo sia fisicamente presente sia quando, assente il corpo, l’opera racconta, non privo d’inquietudine, un esistere solo teorico. Oltre alla costruzione performativa dello spazio torna anche l’alternanza, di stampo teatrale, che accosta elementi reali a fisicizzazioni dell’irreale, costruzione concreta a costruzione mentale.

 

L’”assenza” di Pettena, oltre che nella Poltrona Ombra, è protagonista anche nella serie dal titolo Spazio vuoto riservato a Gianni Pettena. Nella sua prima versione del 1969, in occasione della Rassegna New American Cinema, presso il Circolo Garcia Lorca di Firenze, questa dicitura compare nella locandina che prevedeva interventi anche di Popovich, Scheggi, Chiari. Successivamente, sotto forma di grande stendardo appeso all’interno dei mercati generali a Rennes nel 2008, per la manifestazione Contribution. Una terza versione poi ha rappresentato l’introduzione teorica della mostra personale tenuta dall’artista nel 2011 presso la Galleria Mercier & Associés di Parigi. Vuoti con valenze diverse, che sempre rimandano alla costruzione di uno spazio teorico, di dialogo intorno all’arte, che è (in accordo alla teoria di Rosalind Krauss che spostava da mimetico a indicale il paradigma dell’arte contemporanea) indice, cioè traccia del suo referente fisico, che in questi casi assume la forma di locandina, stendardo, o scritta.

 

Il mestiere dell’architetto è una performance svoltasi a Maiano nel 2002 in cui l’artista si arrampica su una parete di roccia mostrandosi in una fase di stallo, in bilico tra scegliere un appiglio invece di un altro, consapevole che la caduta può attenderlo al varco, a seguito di una decisione errata. Simbolo delle strade complesse e spesso solitarie che un architetto, che pratica, o meglio non pratica, come lui, la professione, si trova a dover fronteggiare. L’abbraccio della roccia ha un sapore salvifico, la dimensione naturale sembra sempre la scelta che non tradisce. Siamo già nell’ambito di una riflessione che tende a trarre un bilancio della sua attività e, soprattutto nella riedizione del 2004, Il mestiere dell’architetto 2 - svoltasi all’ex Meccanotessile di Firenze - a fare il punto sulla condizione attuale di chi opera da quarant’anni secondo logiche rigorose e poco influenzate dalle mode momentanee. Qui la dimensione naturale, assente, lascia spazio alla tecnica più che mai foriera di false piste, se non si riflette accuratamente sul suo corretto utilizzo che non può mai prescindere dalla contaminazione dei linguaggi e dalla sperimentazione, visivamente ben rappresentata dai numerosi tentativi compiuti dall’arrampicatore sulla struttura metallica.

 

Senna, 2002, come era accaduto in Performance fotofosforescente, ripropone l’artista che scompare nell’acqua. Si continua a fare leva sui concetti di reale e immaginario, e sulla concretizzazione mentale di questi ultimi; grazie però all’evolversi della tecnica, al passaggio dal paradigma teatrale a quello cinematografico, l’artista non si immmerge più realmente, ma si tramuta in sostanza umbratile fino a scomparire per mezzo dell’effetto della dissolvenza.

La mia idea di architettura, 2014, è una recente performance che ha avuto luogo nell’ambito della rassegna Radical Tools presso la Galleria Base, Spazio per l’Arte, a Firenze. Unitamente a una selezione dei suoi lavori Pettena ha scelto di raccontarsi attraverso una sorta di lecture che ha deciso di tenere (dati gli spazi estremamente ridotti della galleria) non semplicemente affacciato alla finestra ma, unico tra i partecipanti alla rassegna, in piedi, sul cornicione, rivolto verso la strada e i passanti, perfettamente incorniciato, date le sue proporzioni, in rapporto alla finestra, dall’infisso. È proprio la presenza della cornice, identificabile con l’infisso, elemento deittico, che rende possibile il cambio di status da lecture a performance perché concentra l’attenzione dello spettatore, invitandolo a un riconoscimento percettivo dell’opera in quanto tale. Interessante anche la continuità, già più volte sperimentata, messa in atto tra l’opera performativa, cioè l’artista che poiché incorniciato è percepito come tale, e il luogo reale che lo spettatore abita, la strada e il marciapiede antistanti la galleria, vissuti sia dai partecipanti al vernissage sia soprattutto da generici passanti.

Quest’opera una volta di più, come dimostrato dal precedente, lungo percorso temporale qui illustrato, sottolinea l’idea della living existence come sorta di super performance all’interno della quale emergono, qualitativamente significativi, spezzoni in cui il paradigma estetico si fonde alla imprescindibile vitalità dei sensi originando tranches qualitativamente più armoniche.

 

"Il teatro freddo", in Non-conscious architecture. Gianni Pettena, Sternberg Press, 2018

 

 

 

Con The Curious Mr. Pettena, citazione cercata del precedente sottsassiano The Curious Mr. Sottsass [1] Gianni Pettena nel 2012 sistematizza in un lavoro compiuto una serie di istantanee scattate negli Stati Uniti a cavallo tra il 1971 e il 1973.

L’opera, non solo perché assume la forma di un reportage fotografico, ha nel mito del “viaggio” uno dei suoi tratti principali. Si inscrive in quella tradizione nomadica tipicamente americana che a partire dai primi coloni, spersi di fronte all’immensità di un continente da svelare e fare proprio, sino a più moderne abitudini, che fanno di quello americano il popolo più incline al cambio di abitazione evidenzia posizioni di insofferenza nei confronti degli spazi ristretti esaltando, al contrario, l’imprescindibile tensione al movimento e alla libertà che ne consegue.

(…)

Lo stimolo al viaggio rimane canalizzato nell’esistenza di spazi e nella possibilità di percorrerli, ma la fuga è fallimentare perché il mito del profondo ovest è tramontato, l’America delle origini che accordava il suo esistere alla dimensione naturale non esiste più e forse non è davvero mai esistita.

Se si prende in considerazione la sequenza che Pettena dedica alle case rurali degli indiani non si può fare a meno di notare che è messa in luce quella componente, giustamente apprezzata anche da Sottsass già in un testo del 1951, sull’architettura popolare:

 

la morbidezza di molta architettura popolare è sinonimo di una spirito umile e ingenuo da secoli, perché la miseria è anche un’insistente compagna di umiltà […] umiltà nei confronti delle materie che non si violentano ma si devono conoscere e amare, umiltà verso la natura, umiltà verso sé stessi perché i bisogni dell’uomo non si creano dal niente[2].

 

Ma anche viene rilevata la marginalizzazione cui gli indiani sono stati sottoposti dall’avvento dei pionieri. La critica storica aveva già cominciato a infrangere la gloriosa epopea dei pionieri, costruita nei decenni precedenti a beneficio dei coloni bianchi, per rimettere in cornice la cruda realtà dei fatti: la colonizzazione americana e la creazione del mito del West aveva di fatto coinciso con il brutale genocidio del popolo indiano. La produzione culturale registra e in qualche modo sdogana il cambio di tendenza il film The white invader (David Bulter 1954) ne è una testimonianza esplicita già nel titolo. Gli scatti di Pettena raccontano come sia necessario compiere un ritorno alle origini che si accordi a quella tradizione, innocente e autentica nel suo rapporto con la natura.

Il ritorno al deserto vissuto come ritorno alle origini è proprio sia dell’opera di Antonioni che inquadra il deserto come simbolo dell’accoppiamento e della fertilità, ribaltando dunque la percezione di quel luogo immaginato tradizionalmente come ostile, la denominazione Death Valley, non ha bisogno di maggiori specificazioni sia di quella di Pettena che al termine delle sue peregrinazioni con About non conscious architecture (1972-73) è nel deserto della Monument Valley, riserva Navajo, che rifonda il suo personale concetto d’architettura. Tributando una forma di sacralizzazione laica ai monumenti naturali che quella cultura venera, Pettena enuclea, in un’ampia selezione di scatti e in un video per la Triennale del ’73, le architetture non realizzate dagli uomini ma dal vento. Il desiderio di deserto dell’artista, tanto comune ai Land Artists americani, che di Pettena sono stati coevi e amici, non si manifesta tanto nella necessità di spazio libero per il suo proprio operare artistico ma nella ricerca di quelle zone liminali dove la natura è, sebbene assediata, ancora protagonista. Nonostante Pettena si lasci alle spalle un contesto, quello europeo e in particolare italiano, densamente antropizzato e storicamente ingombrante, la sua personale fuga alla ricerca di libertà non è per lasciare segni nel deserto ma per portare l’intensità della dimensione naturale nel contesto urbano.

 

Si rivela così ormai con sempre maggiore chiarezza questa necessità di ricondursi a un'analisi che riporti fatalmente a ciò che indichi il massimo del fascino e della seduzione per un abitante della città: il deserto, la fuga dalla città in cerca della realtà, il pieno verso il vuoto, almeno apparente... Ma, come vedremo, questa direzione non sarà infine una fuga, non lo è mai, anzi generalmente rappresenterà un momento di meditazione sulla condizione di provenienza storica, fisica, concettuale, e una rivisitazione di origini tanto lontane eppure così chiare, tanto "assenti" eppure così vicine...[3]

 

Viaggio solo all’apparenza svagato, The Curious Mr. Pettena è in realtà analisi lucida della realtà americana che non fa mancare la vena critica ma che permette di riportare qualcosa a casa.

[...]

In Fisicizzazioni non consapevoli[4], testo per «Casabella» di corredo alle immagini di About non conscious architecture, Pettena parla di lettura metodologica di un ambiente fisico e specifica che l’:“analisi dei metodi è percorrere un cammino a ritroso, disponibili a comprendere, la raccolta quasi per catalogo, di queste immagini è in un certo modo la sintesi di una lunga ricerca condotta durante i ripetuti viaggi nel South West degli Stati Uniti e almeno altrettanti viaggi mentali alla ricerca di un preciso nesso fra tutte queste cose che emozionalmente e intellettualmente attiravano”[5].

Similarmente ad Antonioni Pettena[6] riconosce si tratti di “luoghi ormai non più vergini”, la volgare presenza umana insidia anche le zone più sperdute come testimoniano le sue istantanee e la fuga fallimentare dei protagonisti di Zabriskie Point: Pettena però ascrive, nonostante tutto, una dimensione salvifica alla natura che in quegli spazi “era già ritornata a mitigare la violenza dei segni”[7].

 

1 E. Sottsass, The curious Mr. Sottsass . Photographing design and desire, Thames and Hudson, London 1996.

6 E. Sottsass, Architettura popolare, in ‘Comunità’, No. 11, Milan, June 1951; reprinted in M. Carboni & B. Radice (eds.), Ettore Sottsass. Scritti 1946-2001, Neri Pozza, Vicenza 2002, p. 58.

7 See. G. Pettena, Il ‘deserto’ rivisitato, in Ipotesi di seduzione, P. Meneghetti & S. Trombi (eds.), Cappelli Editori, Bologna 1981, p. 28.

8 See R. Calabretto, Il deserto rosso di Antonioni e Gelmetti in Michelangelo Antonioni. Prospettive, culture, politiche, spazi, A. Boschi & F. Di Chiara (eds.), Il Castoro, Milan 2015, pp. 69-85.

10 Ibid, p. 34.

11 The parallelism between Antonioni and Pettena should also be remembered with regard to the use of light: Pettena has stated on several occasions to have drawn on the sequences shot by Antonioni in the desert which favoured the absence of shadows for the desert images of About Non-Conscious Architecture.

12 See G. Pettena, Fisicizzazioni non consapevoli, op. cit.

 

“Dalla città al deserto, andata e ritorno“, in The Curious Mr Pettena, Humboldt Books, 2017.

 

 

 


[1] E. Sottsass, The curious Mr Sottsass. Photographing design and desire, London, Thames and Hudson, 1996.

[2] E. Sottsass, Architettura popolare, in «Comunità», Milano, n. 11, giugno 1951, ristampato in M. Carboni B. Radice (a cura di), Ettore Sottsass. Scritti 1946-2001, Neri Pozza, Vicenza, 2002, p. 58.

[3] Cfr. G. Pettena, Il “deserto” rivisitato, in P.Meneghetti S.Trombini (a cura di), Ipotesi di seduzione, Cappelli Editori, Bologna, 1981, p. 28.

[4] Cfr. G. Pettena, Fisicizzazioni non consapevoli in «Casabella», n. 392-393, 1974, pp. 33-40.

[5] Ivi, p. 34.

[6] Va inoltre ricordato il parallelismo tra Antonioni e Pettena per quanto riguarda l’utilizzo della luce: Pettena ha più volte dichiarato di essersi rifatto per le immagini desertiche di About non conscious architecture alle sequenze girate da Antonioni nel deserto che prediligevano l’assenza di ombre.

[7] Cfr. G. Pettena, Fisicizzazioni non consapevoli, cit.