IL RADICALE

ARTE AMBIENTALE

DIALOGHI / INTERVISTE

JAMES WINES
JAMES WINES

JAMES WINES

  

Gianni Pettena . Quando ci conoscemmo, all'inizio del 1972, a New York, scoprimmo che, pur provenendo da diverse esperienze (un'educazione di arte tu, una di architetto io) eravamo percorsi da dubbi e interrogativi molto simili, non avevamo ancora ben deciso se era l'arte o l'architettura il nostro grande amore. Poi, anche influenzandoci a vicenda, concordammo che le nostre intenzioni si indirizzavano verso un'architettura fatta "ad arte". Ma dimmi, a che cosa può farsi risalire il tuo coinvolgimento con l'architettura?

 

James Wines . La mia storia d'artista inizia con i miei studi e la mia laurea in storia dell'arte e poi con altri studi, questa volta di scultura, e come molti artisti, negli anni sessanta ero profondamente limitato e scontento da una definizione dell'arte in confini troppo angusti. Così come molti altri artisti di quel periodo, compreso te, cominciai a condurre delle azioni, delle performance, nel contesto della città. Dobbiamo molto in questo senso ad Allan Kaprow. Trovavo che il contesto dell'architettura era attraente. Leggevo l'edificio come una cosa pubblica, naturalmente, organicamente pubblica, dedicata alla comunità, integrata in questa. Anche se l'opera non era un gran che, non era così fondamentale che fosse bella o brutta, riuscita o no, il fatto stesso che fosse "pubblica", integrata nella città la rendeva legittima. Così trovavo che operare nella città era un modo di liberarsi dalle limitazioni prodotte da uno spazio come quello di una galleria o di un museo.

 

G.P. Ciò che dici riflette la condizione dell'operare nell'arte in quegli anni, ma introduce anche qualcosa di più insolito, questa osservazione che fai sull'architettura come arte pubblica va un po' in contro tendenza rispetto a ciò che gli artisti pensavano allora dell'architettura. Molti esprimevano il loro disappunto verso la bassa qualità artistica della produzione architettonica. L'architettura per molti era burocrazia, era fredda, uccideva la qualità espressiva della materia. Mentre per l'architettura, il dibattito ufficiale del tempo era intrappolato nelle questioni sull'eredità del movimento moderno: erano molto più occupati a distinguere i figli legittimi di questa eredità da quelli illegittimi. Molto più occupati a guardare indietro che a guardare avanti.

 

J.W. E così noi, in quegli anni, non eravamo assolutamente riconosciuti dagli architetti come compagni di strada. Al contrario non ci prendevano seriamente, ma alla fine noi non guardavamo a loro per avere un'omologazione, avevamo dopotutto altre intenzioni.

 

G.P Ricordo una domanda dopo una mia conferenza negli USA, formulata da un architetto su dove trovassi il coraggio di apparire così "under professional"! Così mi successe di scegliere di mostrare i documenti sul lavoro da me fatto nei deserti, alla John Weber Gallery, a New York, e di avere lusinghiere critiche su Art Forum, tre mesi prima di Italy New Domestic Landscape, nella primavera del 1972, dove esponevano Superstudio, Archizoom, Sottsass, coloro che erano stati i miei più naturali compagni di strada, i cofondatori dell'”architettura radicale”.

 

J.W. Edificavamo in effetti una specie di monumenti che erano più in relazione, oltre che con il contesto, urbano o naturale, con altri tipi di dibattiti e intenzioni. Ciò che facevamo cercava di catturare, di visualizzare una visione più ampia, quasi una nuova cosmologia, un disegno del mondo che raccontasse gli aspetti più reconditi, più sconosciuti. Così succedeva che, andando per deserti e per città, si incontrassero cose inaspettate. Il nostro lavoro aveva così la funzione di rendere significanti posti insignificanti.

 

G.P. Con Robert Smithson discutevamo spesso di come elevare la qualità estetica e concettuale dei luoghi di "frangia", dove la città stava perdendo la sua identità e la campagna non c'era più perché troppo vicina alla città. E mentre Smithson visualizzava le sue teoriche intenzioni in un gesto poetico, in un deserto, scrivendo insomma una poesia, io in qualche modo scrivevo, su queste frange, un racconto.

 

J.W. Dove comincia l'architettura, dove comincia l'arte, dove comincia il passato sulla città. L'indagine su questi confini, su queste terre di nessuno è un aspetto intrigante di queste ricerche.

 

G.P. La separazione così artificiale tra i due campi, arte e architettura, così accettata, non messa in discussione in questi anni, era negli anni settanta costantemente contestata, e le contestazioni non erano verbali, erano visualizzate, fisicizzate in forme che erano architettura ed erano arte contemporaneamente.

 

J.W. Si, il nostro lavoro passeggiava in questa terra di nessuno, ridicolizzava l'artificialità di certi confini, ma non era questa la nostra intenzione mentre sia tu che io facevamo il nostro lavoro. Ne era la semplice conseguenza. Guardavamo semplicemente a un allargamento dell'idea dell'arte, e dell'architettura come forma d'arte pubblica.

 

G.P. L'artista reclamava il diritto di lavorare nella città e di lavorare l'architettura usando concetti, linguaggi e materiali provenienti dalle arti visive, reclamando il diritto all'architettura, chiamando queste opere "architettura". E' qualcosa che avviene con sempre maggiore forza nel dopoguerra. Dopo Allan Kaprow, la Land Art esprime il desiderio di confrontarsi con uno spazio ancora meno limitante di quello della città, lo spazio dei deserti. L'artista lascia la città, il tutto costruito, per costruirsi, nell'antitesi di questa, nel deserto, un alfabeto, un linguaggio. I gesti poetici di un land artist come Heizer o Smithson rimanevano però gesti poetici, non pensi che il tuo lavoro fosse un po' più articolato, tessuto ormai dentro il linguaggio della città?

 

J.W. Molti artisti, si parla della fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, erano coinvolti nel desiderio di trasferire il proprio lavoro all'esterno, nella città, negli spazi aperti. Il dialogo con la città, reclamata come contesto naturale per l'opera d'arte, superava così, naturalmente, la limitante definizione dell'arte suggerita dalle gallerie. Dall'altro lato l'architettura prodotta in quegli anni era come intrappolata nel design. Così che anche per noi, lavori come i tuoi, degli Archizoom e Superstudio, indicavano invece le strade possibili da percorrere: un'architettura che si occupasse di ridefinizioni concettuali, linguistiche.

 

G.P. Così successe che facendo installazioni in musei o in occasioni come le Biennali il lavoro di molti artisti rimase confinato a queste occasioni. Molti artisti non ebbero il successo di altri perché si occupavano poco di produrre qualcosa di vendibile nelle gallerie... Ma verso la fine degli anni settanta un altro fenomeno mi sorprese e in qualche modo mi rese furioso. Piano piano le riviste di architettura espulsero tutto questo lavoro di ricerca. Se negli anni sessanta-settanta riviste come AD, Domus, Casabella ospitavano regolarmente lavoro sperimentale d'arte o d'architettura e anche progetto e anche architettura costruita, verso la fine degli anni settanta e da allora in poi le riviste di architettura raccontano progetto e progetto costruito, o se non costruito, disegnato e raccontato, rappresentato come se lo fosse...

 

J.W. Non ci avevo pensato. E' vero, la definizione odierna di architettura è estremamente riduttiva, limitata a soli edifici pubblici, a versioni ufficiali, a comunicati stampa, ma il lavo-ro di ricerca, tutto ciò che entra in contraddizione con queste definizioni, si trova magari in musei o in gallerie, ma non nelle riviste di architettura. Questa è una visione di destra, riduttiva, indisponente, di una realtà molto più articolata, più complicata, più ricca, più sudata.

 

G.P. Quest'idea di architettura omologa un disegno del mondo molto realistico, pratico, ridotto a semplificazioni, introduce riduttiva sicurezza e non fa neppure intravedere fascinose e liberatorie insicurezze, un'altra visione del mondo.

 

J.W. L'architettura, come le altre arti, deve introdurre e parlare dei grandi dubbi, del dibattito culturale in atto, comporre la visione del mondo nelle sue contraddizioni, esaltanti strade verso visioni di futuro. Un futuro più responsabile di quello suggerito dagli enormi edifici di ferro e vetro che bruciano un'assurda quantità di energia. L'architettura compatibile invece, che interpreta l'ambiente e lo utilizza, che non brucia ma produce, che racconta e non nega, mi sembra l'unica strada percorribile.

 

 

Conversazione tra Gianni Pettena e James Wines, Il disegno del mondo.

La cultura dell'insicurezza e del dubbio. da Risk n°20 1995